Di mio cugino, fatemi sapere cosa ne pensate

è lunghetto ma ne vale assolutamente la pena

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  1. Rosmini11
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    In buona compagnia

    Ecco la cosa che più mi fece arrabbiare il giorno del mio matrimonio: di tutta la gente presente in chiesa fui il penultimo a sapere che Lyv aveva deciso di non sposarmi più. Ultimo, per pura statistica, lo zio Frank (invalido al 92%, quasi cieco, totalmente sordo, costretto su una sedia a rotelle, incapace di respirare autonomamente, già due volte dichiarato legalmente morto) al quale, non senza difficoltà e senza alcuna ragione, la mamma (in piena crisi isterica) aveva voluto spiegare la situazione (questo malgrado il povero zio Frank parlasse di rado e sempre convinto di essere ancora colonna portante dello staff di Lyndon Johnson, il presidente).
    Da allora sono un uomo sempre più solo. Da quel momento, quando sentii uno dei chierichetti raccontare al prete quello che stava succedendo, dando una plausibile motivazione ai quaranta minuti di ritardo della sposa, sono un uomo sempre più solo. Mi prendo le mie responsabilità, di questo: ci mancherebbe! Ho la mia percentuale di colpa. Una percentuale che, a mio parere, non arriva al cinquanta… Bene, questo è solo il mio parere: quello di tutti gli altri è che io abbia il cento per cento della colpa. Nessuno (e uso la parola in senso stretto) venne a dirmi che gli era dispiaciuto che la maledetta strega mi avesse lasciato sull’altare come un imbecille. Il contrario: io, mostro disumano, avevo costretto quella ragazza tanto in gamba, quella santa ad arrivare a un simile punto: anzi, a non arrivare affatto. Tra le loro brillanti argomentazioni anche il fatto che quel tesoro di ragazza mi avesse mandato dei segnali. Segnali dai quale avrei dovuto intuire che lei aveva bisogno di parlarmi. Tutti in quella chiesa, nessuno escluso, diedero la colpa a me di quello che stava succedendo. Tutti, in quella chiesa, non avevano dubbi su chi fosse in torto, da biasimare. Tutti, se non fosse stato troppo blasfemo, avrebbero amato adoperare quella bella croce di legno come lo strumento di tortura per il quale era stata concepita. Tutti: dal più rozzo cugino di lei, a mia nonna, non pensarono nemmeno per un attimo al “festeggiato”.
    Già, perché il festeggiato, mentre gli altri erano troppo impegnati a pensare a loro stessi, o a chi correre a raccontare quello che stavano vedendo succedere, si sentiva morire. Il festeggiato si sentiva morire. Io mi sentivo morire. Non m’importava della gente e di quello che stesse pensando, né delle risate sotto i baffi che sentivo distintamente (perché il prete era a un metro da me!), né del disagio, dell’imbarazzo, della confusione. Io pensavo a lei: a quanto l’amassi malgrado tutto, a quello che stava significando questo non arrivare mai, a come una parte della mia testa aveva sempre temuto (e saputo) che non sarebbe mai salita su quell’altare al mio fianco.
    L’amavo tantissimo. A questo non ci pensava nessun altro. Forse solo zio Frank, che per un attimo incrociò il mio sguardo. E anche se so che non poteva vedermi (ero a più di 18 cm da lui), mi piace pensare che per un brevissimo istante lo zio non rifletté sulla guerra in Corea, ma sul suo povero nipote, che su quell’altare di chiesa stava diventando solo. Sempre di più.

    Avevo appena 21 anni, e questo (dati i tempi che corrono) basterebbe a molti per averci da ridire. Ora, col senno di poi, avrei da ridire anch’io. Ma per allora mi sembrava tutto normale, eccitante e terribilmente giusto. L’amore giustificava ogni azione che avessi dovuto compiere con quella ragazza (per la cronaca, più vecchia di me di cinque mesi). Qualsiasi cosa, che fosse abbandonare gli studi o accettare un lavoro sottopagato e insoddisfacente solo per il gusto di averne uno, andava bene: l’importante era averlo deciso in coppia. Una coppia. Cos’è una coppia? La risposta non è difficile, ma attenzione nell’elencare le peculiarità di una coppia. Di tutte quelle che conosco nessuna è, irrimediabilmente, inscindibile. Le coppie sono fatte per essere scoppiate. Nell’era delle mutazioni genetiche non si salvano certo le coppie: nessun tipo di coppia. Anzi, io penso che non si siano mai salvate. Al giorno d’oggi se nascono dei gemelli siamesi pianificano sin da subito per dividerli (e, diciamo la verità, probabilmente qualche secolo fa li avrebbero gettati da un precipizio per togliersi il pensiero!). Oggi si divorzia tranquillamente (o meno tranquillamente) in uno studio legale: un po’ di tempo fa si ripudiava la propria moglie. Coppie si sfaldano e si formano di continuo: è una questione di tempi e forme. Più o meno serenamente una coppia si tramuta in due separati individui.
    Ma ecco un altro fatto innegabile: non esiste sdoppiamento che non lasci traccia. Per sempre, nei due nuovi individui (che siano bambini, uomini e donne, o molecole di idrogeno e ossigeno), rimarrà un frammento dell’altro, che hanno lasciato, da cui sono stati separati.
    Ci si lascia andare con odio, con rabbia, con indifferenza, con noia o per costrizione. Ci si lascia andare in tutti i modi: ma sempre si lascia indietro qualcosa. Più che una scia è un brandello di sé: una parte troppo profonda o troppo superficiale che, quand’eri ancora una coppia stava talmente dentro l’altro da essere parte anche di lui. A volte fa male, perché ti senti strappare la carne e ti rimane un vuoto. Altre volte non senti quasi niente, è solo un fastidio che torna di sera e non hai sonno o quando c’è troppo freddo e non hai di che scaldarti. Ma anche quell’altro individuo ha lasciato qualcosa per te: forse è poca cosa, forse è un pezzo grosso e te lo senti scomodo, ficcato com’è tra l’anima e il cervello. Questi pezzi, questi residui, si consumano piano piano. Capita che brucino da subito e capita che siano a scoppio ritardato, ma alla fine ne rimane cenere: l’assorbi e ormai è parte di te. A quel punto sei cambiato, che tu lo voglia o no.
    Lyv mi aveva lasciato un pezzo talmente grosso e ben visibile che non poté che divampare da subito, mentre ero ancora là sull’altare e cercavo di convincermi di non avere inteso bene quello che stesse accadendo. Cominciò a bruciare da subito, deciso com’era a farmi diventare un uomo solo. Sì, è a lui che do la colpa: anche se so che la colpa è anche mia perché un incendio tanto grande dovevo potermelo gestire meglio.
    E invece lo lasciai fare. Lasciai che tutto il disprezzo che faceva nascere in me strabordasse investendo chiunque mi venisse, a suo modo, in soccorso. Tutti quei miei amici che ci tenevano un mondo a ricordarmi le esatte parole con le quali erano stati tanto bravi da mettermi in guardia da lei fin dal primo giorno, tutti i miei parenti che avevano individuato un’ottima pecora nera della famiglia in me (da quando il cugino Rocky, uscito di carcere e disintossicatosi dall’eroina, aveva trovato lavoro e ripreso gli studi diventando troppo noioso), i miei genitori che avevano deciso di essere indignati, mia sorella e mio fratello che avevano deciso di essere indifferenti: tutti loro furono investiti dalle ceneri del mio matrimonio fallito dieci minuti prima di iniziare. Furono investiti e ricoperti dalle ceneri del vulcano: e come accadde agli abitanti di Pompei, divennero mummie anonime. E in quel mare di ipocrisie, incoerenze, incendi metapsichici e mummie senza generalità, iniziai a sprofondare verso la solitudine. Non mi chiesi perché le mummie dessero ragione alla mia sposa, né perché tendessero a odiarmi o ignorarmi antipaticamente. Non mi domandai qual’era la strada giusta da prendere e non pianificai nulla di preciso. Ogni tanto mi chiedevo, fingendo di non conoscere la risposta, il perché lei mi avesse lasciato. Il resto del tempo, da qualche parte disteso nel mio nuovo appartamento, continuavo a precipitare in un’inconsistente realtà dove domani non significava qualcosa di diverso (migliore o peggiore) dall’oggi o da ieri. Ogni tanto mangiavo e probabilmente andavo spesso in bagno.

    Non uscivo e non andavo alle feste. Avevo deciso di non averne bisogno. Non bevevo moltissima birra nemmeno da solo davanti la televisione e, se ora sono ingrassato, solitamente non so bene a cosa dare la colpa. Non mi capitava di pensare a ciò che mi stavo perdendo: riuscivo a mantenermi in vita come prima e questo mi bastava. I miei, malgrado il loro sdegno, si preoccupavano di farmi sentire la loro presenza con frequenza irregolare. Io, apaticamente, accettavo la cosa.
    Il mio appartamento precedente era minuscolo: un corridoio ammobiliato di quelli che devi assolutamente percorrere tutte le stanze, se ti viene da pisciare mentre sei nell’ingresso (slash soggiorno slash salotto slash sala da pranzo). Uno di quei mini appartamenti, finti bilocali che vanno bene per due persone solo se fanno coppia fissa (sessualmente parlando). Quel posto il cui ricordo mi metteva a disagio, lo odiavo: troppi bei ricordi (paradossale, vero? Ma i bei ricordi tendono a diventare pugnali in momenti simili). Era lì che, incoscientemente e stupidamente, io e Lyv avevamo stabilito di abitare per i primi tempi del nostro matrimonio felice. Molto incoscientemente e stupidamente avevamo programmato di risiedere in un buco dalla forma allungata che avrebbe fatto andare su tutte le furie qualsiasi economista, tanto era svantaggioso il rapporto qualità-prezzo dell’affitto. Molto incoscientemente e stupidamente avevamo deciso che quello lì sarebbe stato il nostro nido d’amore per il semplice (incosciente e stupido) motivo che era lì dentro che c’eravamo conosciuti.
    Una festa improvvisata: di quelle che riescono meglio. Il mio coinquilino (col quale, per inciso, non avevo rapporti di tipo sessuale) andava matto per le feste: specie se poteva organizzarle, senza la mia autorizzazione, nel nostro corridoio. Non me lo scordo quel pomeriggio. Preparavo, con un gruppo di altri attori alle prime armi, una versione piuttosto classica dell’Otello. Quel giorno uno dei miei sogni si realizzava: avevo la certezza che sarei stato Cassio, il fidato luogotenente: le mie aspirazioni d’attore vi trovavano l’apice. Ero talmente felice, giunto a casa col copione nuovo di fotocopiatrice ancora intatto e smagliante come il mio sorriso, che non m’indispettì nemmeno la notizia (intempestiva e improvvisa) del mio coinquilino: quella sera avremmo dato una festa. Una piccola festa. Già, piccola festa: è importante anche dire che, data la conformazione stessa dell’appartamento, la nostra camera da letto era adiacente all’ingresso (che poi sarebbe stato anche il centro della festa), nonché passaggio obbligato per (nell’ordine) spogliatoio (non so in che altro modo definire quella stanza di mezzo), cucina e bagno. Questo significava che, qualunque cosa fosse accaduta, in ogni possibile evenienza, non era nemmeno lontanamente pensabile che ci si potesse escludere, anche per un solo momento, dalla baldoria. Certo, c’era il bagno: ma anche quello era bizzarramente affollato alle nostre feste. Quel pomeriggio, sommerso dalle parole eccitate del mio caro festaiolo, ero troppo sereno perché, in fondo, non mi andasse una bella festa. E poi, che diamine, mi disse subito che c’erano delle amiche di una sua nuova collega: meraviglioso.

    Di lei, quella sera, non ricordo quanto fosse bella. Non ricordo la simpatia, né mi impressionarono la sua conversazione o il suo essere irreparabilmente provocante. Mi colpì molto invece la quantità di alcool che fu in grado di ingerire nel tempo in cui io finivo di raccogliere i cappotti delle altre ragazze. Mi indispose il modo in cui ostentava le sue curve facendo, letteralmente, tastare con mano a chiunque avesse avuto la prontezza di spirito di proporsi come scettico arbitro. Mi fece anche un tantino schifo il fatto che uno degli “arbitri”, insistente quanto basta, la possedette sul mio letto. Anzi, proprio dentro: sotto le mie lenzuola.
    È così che la vedo adesso: e francamente non riesco a immaginare come avessi mai potuto vederla diversamente. Eppure fino a poco tempo fa quella sera era romanticamente ricordata come la magica sera in cui avevamo avuto la fortuna di conoscerci. Che fosse ubriaca, indisponente e piuttosto pudica erano dettagli che svanivano un po’ ridicolamente in quel folle turbinio di potassio che è l’amore.
    In effetti, a pensarci bene, quella sera io e Lyv praticamente non parlammo. Più che eccitato da lei ero disgustato e non trovavo giustificazione a quello che stava facendo nel mio letto. Non certo nell’atto in sé (malgrado si trattasse del mio letto), ma per il fatto che, tra una birra e un’altra, venni a sapere che era felicemente fidanzata da molti anni. Felicemente.
    Eppure, già poche settimane dopo, quando stavamo assieme, eravamo una coppia, io sostenevo fermamente di essermi innamorato di lei quella sera. Esattamente: la sera stessa che l’arbitro l’aveva posseduta sul mio letto. Non pensavo più all’alcool, all’arbitro, alla sua impudicizia e al fidanzato quinquennale improvvisamente liquidato.
    Era la mia ragazza e questo m’interessava. Quello che faceva, anzi no, che facevamo, era bene e bello: il resto era quantomeno discutibile. Quando, pochi giorni dopo essere divenuta la mia ragazza, le sue argomentazioni mi sembrarono talmente valide da indurmi ad abbandonare la compagnia una settimana e mezza prima dello spettacolo, nulla di quello che feci mi sembrò irragionevole. Anzi, mi sentii in colpa verso lei e verso me stesso: avrei certamente dovuto farlo prima: il teatro, chiaramente, era solo una sciocca perdita di tempo e non potevo essere il suo ragazzo, io, se ero uno che perdeva tempo.
    Ci mise un po’ di più (circa tre mesi) a farmi rinsavire: dovevo abbandonare anche gli studi: al giorno d’oggi una laurea ha un’importanza relativa (sì, non ricordo male: è questo il termine che adoperava). Ovviamente io, che mi preoccupavo 26 ore al giorno di essere alla sua altezza, non ci pensavo nemmeno a essere uno di importanza relativa: mi ritirai dall’università. E, non mi sbaglio, ero radioso quando lo stavo facendo. La casa mia e del mio coinquilino divenne presto la casa mia e di Lyv. Tra l’altro, molto più responsabilmente, da vero uomo, avevo cercato un lavoro perché lei aveva deciso che io non volevo più che fossero i miei a mantenermi agli studi. Ora, lì l’argomentazione un po’ cadeva, dato che non avevo più degli studi ai quali farmi mantenere: ma è una debolezza che sto notando solo adesso: ai tempi tutto era lineare. E poi anche lei lavorava, e senz’altro era lineare anche questo. Ed era malatamente lineare che cercasse di far coincidere i suoi orari non con i miei, ma con quelli delle sue amiche con le quali poteva uscire a far baldoria in locali e feste private delle quali avevo solo lacunosi e superficiali resoconti il giorno dopo. Resoconti in merito alla veridicità dei quali, però, fingevo di non covare il minimo dubbio. Ero sospettoso, invece: e incredibilmente geloso: sapevo perfettamente che il modo con cui Lyv cercava di piacere agli altri era facendo balenare la possibilità di una scopata. Ma la mia gelosia era una cosa che la faceva arrabbiare molto. Mi sgridava. Una notte tornò a casa accompagnata da quattro ragazzi: nessuno di loro brillo quanto lei. Vidi chiaramente che uno le passava le mutandine (un mio regalo, per altro) dal finestrino aperto. Quando, sconcertato, le feci notare la cosa chiedendole, per pura curiosità, quando, esattamente, gliele avevano sfilate, invece di rispondermi fece un lungo sermone (insensato) sul mio carattere irascibile e antiquato. Dopo poche ore le avevo chiesto scusa, lei mi aveva perdonato e io la amavo, ne ero certo, un poco di più.

    Se guardo a me per come ero, mi viene la nausea. Verrebbe la nausea a chiunque, ma mentre vivevo quei momenti non era per me lontanamente plausibile che ci fosse qualcosa di assolutamente sbagliato nei miei comportamenti. Coi miei genitori ero diventato scostante e i miei amici, che a lei non erano simpatici, avevo smesso di cercarli troppo. Ora che ci penso ero diventato solo già prima che mi lasciasse ad aspettarla sull’altare: in quel momento avevo solo iniziato a prenderne coscienza. Ma, comunque, ero solo con lei: per me questo era più che sufficiente.
    Più di una volta mi disse apertamente (e altre volte venni a sapere io in seguito), si era rivista col suo fidanzato precedente. La cosa, ce la mettevo tutta, non era sospetta: in fondo si incontravano per dei chiarimenti (non per fare sesso nella spaziosa, nuova macchina di lui e una volta, ne sono quasi certo, a casa nostra mentre io ero all’ospedale da mio nonno). Si incontravano e lei mi parlava della cosa come se per lei fosse un peso: per me era una gioia sapere che tutti i primi giovedì del mese andava, povera piccola, a un incontro con un suo importante ex e che il fatto le pesasse.
    Raccontata così sembra la storia di un imbecille: probabilmente lo è. Ma attenzione: è la storia di tanti di quegli imbecilli che la maggior parte delle persone, se provano per un attimo ad essere sincere con loro stesse, si accorgono di esserne state protagoniste almeno una volta.
    Certo, è vero, ci sono tanti livelli di essere protagonista.

    Mi rimproverava spesso di non saper fare a pugni: la prima volta che me ne parlò ero convinto scherzasse. Invece era seria: con tono preoccupato mi mise a conoscenza del fatto che un vero uomo ha, come peculiarità base e inscindibile dalla sua stessa essenza d’uomo, quella di sapere combattere. Le risposi con una battuta sarcastica: si arrabbiò a morte. Le chiesi scusa, mi perdonò, ero ancora più innamorato di prima.
    Andò più o meno allo stesso modo quando la sorpresi a piangere ascoltando una vecchia canzone: la loro canzone, sua e del suo ex. Ero maturo: mi diede fastidio, ma non glielo feci notare. Non bastò: il fatto che l’avessi vista piangere la fece infuriare. Non era la prima volta, le risposi. Ma stavolta stava piangendo per qualcosa che riguardava la sua vita precedente rispetto a quando io ero entrato a farne parte: semplicemente vedendola avevo violato un suo momento d’intimità col quale non dovevo immischiarmi. Allora mi parve un’osservazione ragionevole, e mi mortificai. Ora mi mortifico al pensiero di essermi mortificato. Mi odio al pensiero di essermi mortificato.
    Da quel giorno in poi, però, quando sentivo arrivare dalla porta chiusa la loro canzone (che amava mandare a ripetizione) mi guardavo bene dall’entrare. E, non dimenticando che abitavo sempre in quel corridoio questo significava passare del tempo, come un idiota, nell’ingresso guardando dalla finestra o in bagno guardando la mia stupida faccia allo specchio. Quello che aspettavo era di entrare, non parlare della canzone e, innamorato, stare con lei. Stare semplicemente con lei.

    Ero romantico: un romantico irriducibile. Andavo matto per le sorprese, le trovate, le frasi a effetto, i momenti da ricordare. Lei in questo era altalenante: a volte pareva gradire moltissimo le mie idee, altre volte sembrava assecondarmi, altre volte ancora il suo atteggiamento era così cattivo nei miei confronti da riuscire cancellare ogni barlume di buon senso che fosse in me. Ero romantico perché mi faceva bene l’idea di renderla felice. O quantomeno l’idea di convincermi che stesse accadendo. Agivo in funzione delle sue volontà, dei suoi stati d’animo: ma capivo solo di essere un felice innamorato. Era capace di mettermi tremendamente in imbarazzo per cose che avevo fatto, faceva paragoni col suo ex facendomi capire che, al confronto, io ero poco più che una scolaretta. Sosteneva che non avrei saputo difenderla, ma una volta che lo feci non mi parlò per due giorni finché non la implorai di perdonarmi. Implorai.
    A volte ebbi l’impressione che si vergognasse di me. Glielo feci presente e, dolce e ammaliante come sapeva essere, mi dissuase. Mi fece passare per un folle. Un pazzo. Ora, ricordando come per un’intera sera si preoccupò di evitare che i suoi vecchi compagni del liceo venissero a sapere che ero il suo ragazzo, ho difficoltà a credere alle dolci argomentazioni che usò con me quella notte (stando anche al fatto che una di queste era un’ottima prestazione di sesso orale).
    Una volta mi lasciò. Andai a casa dei suoi perché non si faceva vedere, né sentire da due giorni. La trovai con una scatola di sue foto con lui. Me le sbatté in faccia come se da sole bastassero a mandare via un uomo innamorato. Dal tono che usava sembrava quasi che lo stesse facendo per me: che sciocchezza! Io mi gettai in ginocchio come se fosse in ballo la mia vita. Piangendo, singhiozzando la pregai di ripensarci. Quella sera, Lyv, mi accontentò. Ci ripensò e continuò ad essere la mia ragazza. Io, quasi per niente turbato dall’accaduto, continuai, semplicemente, ad amarla alla follia.
    In casi simili si usa dire che uno dei due componenti della coppia è “l’anello debole della catena”. Ero certamente io, quell’anello: ma lei era solamente una adorabile e tossica ruggine dalla quale amavo che mi fossero lacerate la carne e l’anima. Mi pareva bellissimo: non potevo farne a meno. Il sangue che veniva fuori dalle mie stesse ferite mi accecava e il dolore folle che provavo usavo chiamarlo “amore”. Tutti usano chiamarlo così.

    Quella mattina al matrimonio, quel non essere là, fu solo un’altra violenta e distratta coltellata al mio povero viso rosso di sangue e amore, ma non di vergogna. Vedevo tutto tremare umido, come quando fa troppo caldo e perfino l’asfalto sembra sciogliersi. E mi scioglievo anche io, mentre iniziavo a immaginare dove fosse, in quell’istante. Probabilmente aveva trovato giusto e, a suo modo, poetico, conoscere sessualmente un nerboruto meccanico o uno stupido disoccupato qualsiasi. Probabilmente stava convincendo il prestante disoccupato e sé stessa che quella che stava vivendo era la vicenda sentimentale più emozionante e vera della sua esistenza. Probabilmente, se conosceva il palestrato imbecille da più di dodici ore era già al punto in cui, in una falsa e irritante crisi idilliaca, si chiedeva se veramente se ne stesse innamorando. Il tutto in un letto sudicio e completamente incurante del matrimonio fallito: ma in fondo, c’è da dirlo, l’amore è amore: non si può certo combatterlo. Ecco il suo schifoso modo di essere romantica.
    Una volta, teneramente (è un aggettivo che va parzialmente bene per i primi tempi di un rapporto) mi disse che sarei stato sicuramente un buon padre. Mi fece piacere.
    Una volta le dissi che lei sarebbe stata una mamma complice, di quelle che sono anche amiche dei figli. Mi fece chiedere scusa di averle parlato di “mamme e figli”.
    Una volta mi disse un paio di nomi con cui avrebbe voluto chiamare i nostri figli (i nostri, non i suoi e di qualche lattoniere simpatico e analfabeta).
    Una volta le ricordai l’avvenimento: volle una pausa di riflessione (di una sera – un sabato sera, per l’esattezza).

    Lei era una pazza. Ma questo non lo dice nessuno, assolutamente. Prima qualcuno dei miei amici aveva provato a farmi notare la cosa. Io me la prendevo e piano piano loro smisero. Quando ho cominciato a dirlo io che Lyv era una pazza, i miei amici non c’erano più. Ero già solo. E certe volte era quasi come se fossi io ad essere pazzo.

    Quando le chiesi di sposarmi la prima volta avevo pianificato tutto. Era da un po’ che mettevo da parte dei soldini: mi sarebbero stati utili. Quella sera non avevo organizzato né cene particolari, né uscite sfarzose. Ma quando verso le sette tornò a casa dal lavoro le feci trovare tutto come se fossimo in un teatro. Anzi, in una scena già bella allestita. Luci soffuse. Cominciai a recitare che ancora non mi vedeva, nascosto dietro una tenda pesante. Lei pareva un poco stranita (comprensibilmente) e all’iniziò tentò d’interrompermi con delle domande. Io non mi fermavo e continuai, dopo essere uscito dal mio nascondiglio, a rivolgermi a lei. Mi lasciò continuare allora. Ero Benedict, uno dei tanti innamorati di cui ci ha raccontato Shakespeare. Lei era la mia Beatrix. Mentre Benedetto si dichiarava a Beatrice io, ancora, lo facevo a lei. E quando, alla fine, guardandola negli occhi le porsi l’anello chiedendole di sposarmi, lo ricordo perfettamente, mi sentivo un dio. Anche lei era piuttosto sorridente (e certo “piuttosto sorridente” non è il massimo per una a cui hai appena chiesto di sposarti…). Disse che ero un tesoro, che l’anello era bellissimo, che non avrei dovuto (come “non avrei dovuto”?!), che la prendevo un po’ alla sprovvista, che l’anello era bellissimo, che non sapeva che dire (sì?!), che l’anello era bellissimo, che non se la sentiva di dire niente (ma come?!!). Mi abbracciò con vero affetto e si diresse verso il bagno dicendo che era a pezzi, lasciandomi con l’anello (che era bellissimo) in mano.
    Poco dopo sentì dalla cucina che mi chiedeva di rimettere un po’ d’ordine e apparecchiare la tavola.
    Quella sera, semplicemente, non se ne parlò più. Non facemmo nemmeno l’amore, quella notte. Io pensai, tra le altre cose, a come i ragazzi della vecchia compagnia mi avevano mandato a quel paese quando ero andato a chiedere in prestito qualche arnese di scena: comprare i tendaggi e le luci da me era costato un bel po’ di soldi. Inutili.
    Il giorno dopo mi disse che probabilmente non era ancora il caso, che ancora non eravamo pronti (era gratificante il modo che aveva di parlare al plurale), che non potevamo permettercelo e che non era una mossa intelligente (mossa?! Intelligente?! Stavamo parlando di Monopoli e non me n’ero accorto?). Le dissi che, in fondo, aveva ragione. Mi sentii una merda e la cosa peggiore è che veramente pensai che lei avesse ragione. Invece non ne aveva: quantomeno nel modo di fare le cose, Lyv sbagliava. Sempre. Le dissi di tenere l’anello: non oppose un attimo di resistenza. In fondo, dichiarai, un regalo se lo meritava comunque. Quindi sì, facemmo l’amore.
    La seconda volta che le chiesi di sposarmi fu lei a indurmi a farlo. I soldi che avevo raccolto non c’erano più (quelli lì sono bravi a sparire senza che te ne accorgi come fanno le ragazze), ma lei, in uno dei suoi momenti di romanticheria, mi sussurrò che si sentiva pronta a fare un passo del genere. Scherzando dissi che invece era solo perché voleva un altro anello: nemmeno le avessi conficcato una forbice rovente nelle reni saltò giù dal letto coprendosi con il lenzuolo (che, per inciso, tolse di dosso a me) e dandomi del mostro, stronzo e non ricordo bene cos’altro.
    Quella sera, per farmi perdonare, le chiesi di sposarmi. E con un anello nuovo.
    Per un istante pensai “Lo sto facendo davvero per amore o solo per chiederle scusa?”. Ma mi risposi quasi subito “Che sciocco! Ma certo che lo fai per amore! Guardala: non è bellissima?”

    Disse di sì.

    Non litigammo nessun’altra volta prima del matrimonio (anche se litigare è forse un termine inappropriato: più spesso succedeva che io iniziavo ad arrabbiarmi per come lei si comportava, immediatamente lei si arrabbiava perché io mi stavo arrabbiando e all’improvviso io avevo torto e correvo a domandare perdono). Lasciai a lei l’onere di organizzare il nostro matrimonio in economia. Ogni tanto mi bastava che venisse a ricordarmi che mi amava: io amavo crederci.
    Organizzò la sua festa di addio al celibato e me ne parlò solo poche ore prima. Quella sera vidi la partita al bar. Quando stavo per tornare mi chiamò per dirmi, con la sua voce sensualmente istupidita per l’alcool, se potevo andare a dormire da un’altra parte, perché la festa ancora non era finita. Sentì anche qualche risata femminile, in mezzo alle altre che facevano da sottofondo alla sua voce. Finsi di trovare la cosa divertente e le raccomandai di divertirsi. Mi vergognai molto a telefonare a qualcuno: passai la notte in un motel.
    Pensai a organizzare una mia festa dell’addio al celibato, ma era triste: non avevo molti da invitare. I colleghi del lavoro non li sopportavo e i miei vecchi amici li vedevo poco. E anche quando Lyv non voleva che li frequentassi, no: erano esclusi.
    Quando una prostituta iniziò a fare il suo lavoro nella camera attigua alla mia non potei che immaginare Lyv, nel nostro letto, che emetteva gli stessi versi sotto uno spogliarellista felice che la padrona di casa fosse abbastanza ubriaca da festeggiare fino a quel punto.
    Passai la notte al motel senza chiudere occhio. Mandai anche uno stupido sms a Lyv. Un sms a cui non rispose mai.
    La mattina dopo la mia scatola di preservativi era per terra vicino il divano. Certamente, come lei disse (già contrariata solo perché gliel’avessi chiesto), erano rimasti lì perché ne avevano fatto dei palloncini. Ero troppo stanco per dubitare come per litigare: non feci nessun’altra domanda. Nessuna. Io ero innamorato, e non volevo che la donna che amavo mentisse a me tre giorni prima del nostro matrimonio.
    E poi in fondo, quello era o no un addio al celibato? Si sa cosa succede: non ero certo un moralista io. Basta con queste storie.
    Come geloso non ero uno intraprendente, infatti. Non facevo mai cose tipo controllare diari o telefono. Ma quella mattina non seppi resistere: lei era in bagno, dall’altra parte dell’appartamento. Il suo telefono vibrò, in modalità silenziosa: un messaggio. Promettimi che ti lascerai scopare ancora così la prossima volta che stai per sposarti.
    I muscoli del mio viso erano immobili. Non scorsi totalmente il messaggio, in modo che figurasse ancora tra quelli da leggere. Allora la chiamai dicendole che il suo telefono aveva vibrato. Corse in fretta e sorridendo, in una maniera irritante come non avevo mai visto fare a nessuno in tutta la mia vita, iniziò a leggere. E sorrideva.

    Promettimi che

    E sorrideva.

    ti lascerai scopare

    Irritante.

    scopare ancora così

    “Chi è?” “Una mia amica” “Perché ridi?” “Non puoi capire” Sì che posso! “Che fai?” “Sto rispondendo” “Pensavo non potessi” Continuando a sorridere irritante “Certo che posso” “Perché a me non hai risposto, allora?” “Quando?”
    Non l’avevo mai picchiata così forte. Mentre il mio gomito calava sul viso di lei sentivo mille me stesso che mi ringraziavano. Lei credevo fosse più sbigottita che dolorante. Io mi accanii subito sul suo telefono: fin allora ero riuscito a ridurre in brandelli così piccoli solo del cibo. In silenzio, senza dire una parola, continuavo a buttarlo con forza verso il pavimento, poi raccoglierlo e quindi scaraventarlo nuovamente. Ogni volta un poco più forte. Ogni volta per uno dei mille me che stavano uscendo fuori da non so dove. Anzi, lo so da dove: da tutte le volte che avrei dovuto colpirla o sparire e invece le avevo chiesto scusa. Ecco la mia parte di colpa: averle chiesto scusa troppe volte. Questo il mio errore. Quando il cellulare non fu più abbastanza mi concentrai nuovamente su lei: era rimasta immobile, gettata sul divano a guardarmi fare. Quando le diedi la seconda gomitata sul volto mi resi conto che era la prima volta che picchiavo qualcuno.
    Ogni schiaffo che mollavo era per un motivo che i mille mi suggerivano. E i mille avevano tanti motivi. Quasi subito provò a divincolarsi, ma i mille mi aiutarono a tenerla ferma.
    Poi, quando gli schiaffi e le gomitate erano state sufficienti per farla calmare la legai al nostro letto. Cercai di stringere i polsi e le caviglie più forte possibile: mi sentivo come quando la gengiva è infiammata e vorresti scavarci dentro con le unghie per tirare fuori lo schifo: scavavo la sua carne per tentare di tirare fuori lo schifo, e come con la gengiva, sentivo di non riuscirci.. Era immobilizzata e io iniziai a camminare avanti e indietro nella nostra minuscola camera. Lei credo avesse la forza di urlare: proprio non ne ebbe voglia. Io invece sì, e ogni volta che loro mi ricordavano qualcosa io le facevo una domanda. Gliela facevo gridando più forte che potevo con le labbra che aprendosi e chiudendosi strisciavano sulla sua faccia, sulle sue orecchie irritanti. Poi vidi che stava sorridendo, ne sono sicuro. Era irritante: non avevo dubbi: stava ripensando a quello che era successo sul nostro letto. Che schifo! Faceva schifo!
    Ma io l’amavo: dovevo lavarla: andai nella doccia e riempii un grosso secchio di acqua bollente. L’acqua calda è la cosa migliore quando si vuole lavare bene qualcosa di sporco. Allora tornai nella stanza dove c’era lei. Le avevo messo uno strofinaccio in bocca per non vederla sorridere. Quando mi vide arrivare col secchio fumante sorrise con gli occhi, però. Lo vidi: li spalancò Io allora mi arrabbiai molto e versai tutta l’acqua proprio su quelli. Stava facendo un sacco di confusione, con quei suoi mugolii: ma perché mi stava punendo così?! Ma cosa le avevo fatto io di male?! Mi prendeva in giro. Perché imitava se stessa mentre si divertiva sul mio letto coi suoi uomini. Perché?! Cominciai a colpirla forte sul ventre col secchio vuoto. Sempre più forte, perché mi sembrava che non fosse mai abbastanza e i mille erano d’accordo con me. Loro erano sicuri che potessi fare di meglio. Fu a quel punto che capii che probabilmente non era sufficiente perché i vestiti attutivano i colpi e non riuscivo a farle capire le cose a quel modo. Allora glieli strappai di dosso con la forbice senza fare attenzione a non ferirla. Le feci solo un piccolo taglio vicino un seno: fu un segno: ripresi a colpirla col secchio in quel punto con quanta forza avessi in corpo.
    Mi fermai dopo almeno cinque minuti di orologio. Lei s’era addormentata (addormentata!!!). Io cercavo di parlarle, di farla ragionare, e lei si era addormentata! Per tutta la notte e tutto il giorno seguente ho vissuto con lei in quella stanza. La guardavo, le sussurravo le mie ragioni, volevo capisse. La bagnavo spesso, per lavarla. Pregai molto, anche: soprattutto per lei. In penombra. Poi la volli vedere meglio. Accesi la luce grande e mi fermai a guardarla: era piena di ematomi e ferite. Sul volto le gomitate avevano lasciato segni profondi che si erano gonfiati. Però forse l’acqua non era stata sufficiente: forse non era stata abbastanza calda. Andai di nuovo, per l’ennesima volta, alla doccia e stavolta lasciai correre il rubinetto rosso molto di più delle altre volte.
    Quando gliela versai addosso si svegliò mugolando. Io mi distesi accanto a lei, nel letto caldo e umido. Iniziai a piangere e a chiederle scusa. Che stupido imbecille. Ancora una volta le chiedevo scusa piangendo come una femminuccia! Ma perché?! Perché?!!!

    Rendendomi conto di cosa stavo facendo andai su tutte le furie, mi arrabbiai con me stesso: ancora non avevo capito! Non si capisce mai, mai abbastanza. Mai del tutto. Le saltai addosso e le strinsi forte il mento arrossato e ferito con una mano. Allora le tolsi lo strofinaccio sporco di sangue dalla bocca con l’altra. “Tu mi ami, Lyv?” le sussurrai.
    Ma lei invece di rispondermi cominciò a piangere. Non avevo bisogno di altro: era un no. un chiarissimo no.
    Mi sentii inondare dallo sconforto. Un peso, come di piombo fuso, cominciò a riversarsi dentro il mio stomaco. Le sistemai nuovamente lo strofinaccio tra i denti, con calma, e decisi, con le guance rigate di lacrime, che era giusto che anche lei provasse lo stesso. Allora andai a cercare tra i miei arnesi da pesca (che, causa il suo biasimo, stavano a fare ragnatele in un angolo remoto dell’armadio, anticamera della pattumiera). Presi tutto il piombo che c’era e lo sciolsi con attenzione in un pentolino. Poi, con l’aiuto di un piccolo imbuto, glielo feci colare in bocca. Anche se tentò di urlare, perché le dovette fare male, sono certo che era stato più doloroso per me che per lei. In quello che facevo non c’era niente di troppo sbagliato.
    Non si mosse: per qualche istante mi piacque pensare che stesse capendo.
    La mattina del nostro matrimonio la slegai, l’aiutai a vestirsi, perché lei non s’era nemmeno mossa dal letto. Ma le chiesi di finire da sola, perché non portava bene vedere la sposa prima delle nozze, lo sanno tutti. Le consigliai anche di mangiare qualcosa, ma sapevo che non l’avrebbe fatto: non mangia mai quando è nervosa.
    Io pure mi vestii, le diedi un bacio sulle labbra. Le dissi di amarla e che l’aspettavo in chiesa. Credo d’averla vista fare un cenno. Doveva essere stanca. E anche emozionata: era il giorno delle sue nozze, per la miseria!
    Mi sistemai il colletto davanti il piccolo specchio e uscii per andare in chiesa.

    Quando mi dissero che era morta, che l’avevo uccisa, non riuscivo a credere alle mie orecchie! Perché inventare una storia simile?! Perché coprirla?! Era scappata, ecco tutto! Scappata ancora una volta facendomi fare una figura da imbecille, proprio a me, che l’amavo. Che l’amavo da sempre.
    Tutti, pure i miei parenti che non l’hanno mai appoggiata, hanno deciso di schierarsi dalla sua parte. Gli amici che non avevo più sono ritornati, discreti come fantasmi, a farmi sentire la loro disapprovazione. Una disapprovazione che manifestano con una sorta di pena nei miei confronti.uno snervante assecondarmi che sembra avere contagiato tutti quelli che mi parlano. Ma perché?! Perché tornare solo allo scopo di remarmi contro, di mentire per coprire la fuga di quella strega? Io l’amavo, non loro! Io la amavo, non tutti gli altri. Ed era solo a me che lei faceva le sue cattiverie, senza che smettessi mai di amarla.
    Ora è scappata da me, con chi non so. Ora è lontana da tutto quello che eravamo, non c’è più noi, non c’è più coppia. Ora io non la amo più.
    Ora è come se non esistesse: mi è indifferente. Per me è come se fosse morta davvero. Quello che dicono gli altri mi va bene. O faccio finta che sia così: che importanza ha?.

    Il dottore mi ha chiesto di scrivere alcune pagine su lei e me e il nostro matrimonio fallito. Io l’ho fatto, tutto qui: e c’ho scritto quello che è successo. Che tutti gli altri, compreso il dottore, cerchino di convincermi del contrario, è solo affare loro. Lei mi ha fatto tanto male, mentre io la amavo. Lei non capiva quanto la amassi, perché non provava quello che provavo io: se glielo avessi fatto provare, pensavo, le sarebbe piaciuto e mi avrebbe amato come io facevo con lei. Ma non è bastato farle sentire il dolore che io provavo. Non riesco a capire perché. Questo è quello che è successo, nient’altro. Tutto il resto è invenzione.
    E non so nemmeno perché il dottore mi ha fatto scrivere quello che gli ripeto ogni giorno. Perché me lo hai fatto scrivere, dottore? Tanto lo so che non mi credi. Forse hanno convinto pure te che sono pazzo, dottore. Forse quelli che hanno organizzato questo inganno hanno preso in giro anche te, dottore. Loro fingono di non credermi, dicono che sono pazzo. Loro inventano la storia dove io sono un povero esaurito malato che ammazza la gente e all’improvviso nessuno mi crede più. All’improvviso non è più lei ad essere scappata, ma io ad averla ammazzata. Da quel momento, quando il fratello di Lyv è entrato in chiesa con i suoi amici poliziotti, mi è corso incontro e ha iniziato a prendermi a pugni gridando che ero un bastardo, nessuno mi ha più creduto. Io stavo zitto, allibito a lasciarmi colpire. Forse gli ho pure chiesto scusa. Ma scusa per cosa?!
    L’altro pomeriggio mi hai chiesto se rifarei le stesse cose tornando indietro e io non ho risposto. Ti rispondo adesso, dottore: no, chiederei scusa meno volte, forse nessuna volta. È stato questo a farmi iniziare a diventare solo. Chiedere scusa quando non dovevo (e chiederle per due volte di sposarmi). Ora non lo farei più, dottore: dopo averla vista scappare il giorno delle nostre nozze, lasciarmi solo, io non la vorrei più vedere. Non la voglio più vedere. Eppure sono certo che se tornassi indietro per davvero, se ricominciassi da quella sera che la incontrai e potessi non sapere niente di quello che sarebbe successo dopo, mi innamorerei di lei ancora. Se non avessi dalla mia l’esperienza di come lei è realmente, di come lei è con me, io me ne innamorerei ancora. E sarebbe bellissimo, non ci vedrei niente di sbagliato. E allora, ne sono certo, tutto andrebbe esattamente come è andato adesso. Ma indietro non si torna e la vuoi sapere una cosa, dottore? È meglio così. Ho pianto troppo. Io non la amo più, sono veramente solo, sempre di più.

    Qui all’ospedale, però, c’è gente che mi crede. Sono altri a cui nessuno dà retta e che girano con me. Anche loro raccontano le loro storie. Non è gente che sta molto a sentire: preferisce raccontare quello che è capitato loro. Certe volte però si fermano ad ascoltare me. E loro non si mettono certo a vaneggiare di ustioni interne ed esterne, percosse letali, schizofrenia e altre assurdità. Forse alcuni di loro sono pazzi veramente, ma almeno non fingono di non credermi. Non fingono di credere pazzo anche me.
    Eppure continuo a isolarmi, tanto che parlo ogni giorno un po’ meno (è per questo che hai voluto farmi scrivere questi fogli, dottore? Per sentire cosa ha da dire uno dei tuoi pazzi che non vuole più parlare tanto?)
    Voi dite pazzo, io dico solo: e siete voi, voi e lei che mi avete ridotto così.

    Ma sappi, dottore, che sono solo. Ma sono anche in buona compagnia.

    Buona lettura, dottore. C’è l’infermiera alla porta con le pillole per me e il pastello è quasi tutto consumato.
     
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  2. Sekmet
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    L'ho letto tutto d'un fiato ... un pò triste come storia ..sai alla fine mi ha lasciato un velo di malinconia e quel senso di inquietudine che solo un amore impossibile penso possa laciare ... Ros fa i complimenti a tuo cugino da parte mia...
     
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    La cosa geniale di questo racconto è che riesce quasi a farti prendere le parti di un pazzo psicopatico omicida, ti porta quasi a giustificare le sue azioni ed il suo crimine... Quasi. ;)
    Bello, mi è piaciuto molto! :bravo:

    :bye:
     
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  4. Rosmini11
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    Eindh mio cugino ti ringrazia calorosamente ed è felice che tu sia riuscito a cogliere ciò che lui voleva. spero di convincerlo a farvi leggere qualcos'altro delle sue opere.
     
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    Oh, non è stato difficile immedesimarsi nel personaggio, quando l'ho letto avevo appena finito di lavare il bagagliaio dell'auto! Certe ragazze sono così... Appiccicose! Ho ancora addosso il suo odore... Già, finchè non ti tagli le unghie resta sempre un po' di sangue rappreso.

    Se non riesci a convincerlo accoppalo pure, non ti serve a nulla!

    :bye:
     
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  6. hatter in chains
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    Eccomi Ros, scusa il ritardo nella risposta...dunque:

    La lunghezza del racconto non è sicuramente un punto a suo favore, l'intento era forse quello di immedesimare il lettore nella follia e nel logorio mentale del protagonista ma almeno 2-3 pagine possono tranquillamente essere tralasciate...le parti migliori a mio avviso sono al centro del racconto, (quando il protagonista descrive le situazioni assurde che è costretto a subire tornando sempre e comunque sui suoi passi) e verso la fine, quando il lettore si trova a scoprire il vero motivo dell'assenza di Lyv nel giorno più importante della sua vita...al di là della lunghezza in alcuni paragrafi ci sono ripetizioni che (forse scritte sempre per accentuare il tema "logoramento") appesantiscono la lettura e andrebbero eliminate, stessa cosa per la terminologia o le forme verbali in alcune parti (per esempio: "Era lì che, incoscientemente e stupidamente, io e Lyv avevamo deciso" - "Mi indispose il modo in cui ostentava le sue curve" o "un corridoio ammobiliato di quelli che devi assolutamente percorrere tutte le stanze"...
    il mio consiglio è quindi di limare qua e là e rivedere qualche espressione, anche per definire meglio il carattere del protagonista, Lyv invece mi sono molto divertito a scoprirla...
     
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5 replies since 10/4/2008, 14:50   446 views
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