Lestasi

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Ispirato dalle tenebre
        Like  
     
    .

    User deleted


    Lestasi

    Svanito.
    Svanito.
    Svanito.
    Svanito come lacrima nella pioggia,
    come soffio nel vento,
    come fiamma in un incendio,
    come onda nel mare,
    come silenzio nella notte.



    Percorrendo le vie fumose di una città magica, calpestando pietre cariche di storia, osservando edifici fascinosi, ripenso a quell’apparizione fugace, a quella curiosità morbosa, a quello sguardo magnetico, a quel viso disegnato. Nelle tenebre sembro essere l’unica anima in pena che abbia ancora la forza di andare in giro, di cercare il nulla, di parlare sola.
    Carico d’energia e vitalità il vento mi trascina, mi eleva al di sopra di cupole dorate, di tetti ocra e di letti vivaci, mi concede la vista di un panorama sublime, che lascia senza fiato, che mi abbaglia nonostante l’oscurità. La notte è magica, piena di insidie, piena di affanni, piena di speranze, piena di sogni irrealizzabili che sembrano possibili, piena di certezza, piena di spontaneità e voglia di vivere. Il mattino è lo strascico calpestato e lurido di una sposa stupenda alla sera, dopo una giornata di balli e lunghe cerimonie. Porta con sé tristezza, amarezza, sbornie di momenti scelti e attimi sfuggiti, di secondi preziosi e di rugiada asciutta, di brina disciolta e di orchidee appassite.
    Il passo lieto diviene stanco, pesante, insopportabile, e quando una mano sconosciuta mi afferra e mi porta via, non trovo la forza di reagire o di cambiar direzione: mi lascio andare, la vita è breve, il mondo è piccolo, l’amore è dannatamente grande, l’odio non esiste. La mano è amica anche se non so a chi appartenga, i luoghi che vedo scivolarmi dinanzi agli occhi sono conosciuti e talmente fini e magnifici che rimango estasiato. Il canto delle stelle si eleva forte sopra le nostre teste e la sordità delle campane riecheggia per una landa benedetta e pacifica.
    Un vortice di luce balla sensualmente in fondo ad una strada polverosa; sguardi indispettiti spiano affacciati alle finestre dai vetri opachi e sperano che il cammino sia funesto, disseminato di aghi e carboni ardenti. Ma io e la mano direttrice diveniamo abili fachiri e superiamo gli ostacoli dei malevoli.
    Lingue perfide sussurrano litanie d’invocazione nascoste dietro le porte lignee, inviandoci la maledizione della serpe affinché distrugga le nostre molli gambe. Ma una melodia radiosa e soffice pervade le menti dei neonati di gaiezza e il piffero incantatore inebetisce le squamose creature striscianti.
    La pioggia batte sulla larga fronte e disegna ghirigori tribali, innescando nella mia mente ritmi sconosciuti ed esotici, suscitando movimento e voluttuosità, ricordando ai recessi cerebrali ere passate e animali già esistiti, uomini diversi e fuochi straordinari. Il battito continuo dei tamburi mi rende frenetico, smanioso di dire, desideroso di correre sui mari di nebbia e di saltare sulle acque dei fiumi, di urlare al vento il mio coraggio e di trattenere il respiro per sempre.
    Alzo gli occhi al cielo scuro e dominante e inizio ad amarlo, lo guardo come se fosse la prima volta e la visione è paradisiaca, incommensurabile, maliziosamente vera. Voglio parlare, voglio esprimere con parole le emozioni del mio cuore.
    Quando apro la bocca fuoriescono note e pentagrammi, fiori e foglie, lamenti e profezie mute, code ondeggianti e cornamuse. La sensazione di non esistere mi circonda e mi travolge, ed io lascio che agisca in me, dentro me, mi porti via, mi faccia suo, mi conquisti. Sono schiavo, non ho sonno, voglio volare. Un rumore nuovo mi spinge verso il centro, mi schiaccia contro la terra, la gravità non si può sconfiggere: è il tonfo di un gobbo, o il crollo di una chiesa, o il calcio di un mulo. E’ una porta che si apre, un mondo che si chiude, è la musica che finisce, è una vita che si spegne.
    Sembra tutto grande, la stanza è viva, i muri dialogano a distanza e le luci soffocano il fumo. Il cielo è morto, me lo dicono gli occhi alti che vedono bianco e crepe nere; le stelle non osano entrare e continuare il concerto, la strada è finita. Per sempre.
    La mano è ancora nella mia, mi stringe con ardore, con calore e forza; attorno ad essa è comparsa una figura, vestita, alta, mora, forse umana. L’ aula è ingombra, il banco è pesante di bicchieri, di mozziconi urlanti volute e di mani aspettanti mani. Un uomo chiede, molti rispondono, le donne ballano danze sopite al ritmo di un pianista addormentato; una gabbia vuota invita a godersi ogni attimo.
    E’ un uomo che mi ha tirato fin lì, e di spalle non riesco a capire chi sia. Forse lo conosco. Un ombrello posato in un angolo sgocciola gocce zampillanti, mentre i rumori della notte sono coperti da quelli di una taverna malfamata e sconsacrata. Una sedia si posa sotto di me e un tavolo si para immediatamente davanti, quando la losca immagine autunnale volge lo sguardo e siede al mio fianco, lasciandosi scoprire.
    Il tempo si contrae in un punto indecifrabile, diviene superfluo, disastroso, amabile; l’olio scorre lentamente sul greto delicato e compone forme dal sapore ancestrale, dal retrogusto felino. A volte il potere distorto di un grido domina i mondi, ma non è il mio caso; basta un soffio, un sussurro armonioso, affinché la mia anima si libri aldilà dell’oceano.
    Un occhio vigila, l’altro riposa, affondato in una guaina luminosa e fatale, simile al cielo di maggio; i fili bui si tendono come corde di violino e creano una chioma fluente, corvina, fragile; la pelle è casta, senza imperfezioni, è nebbiosa e stranamente pulsante; una bocca di vulcano spalanca le fauci nel tentativo estremo di eliminare una passione, trovando resistenza e sprigionando un enorme calore; lo scalpello di un artista genera bellezza dalla naturale pietra.
    Non posso non sapere chi si cela dietro la maschera di cristallo, dietro il dito d’avorio levigato: la visione attanaglia le viscere di un ebete e mimetizza la creatura superiore, l’essere amato, cercato, voluto, dannato, mai trovato. Il ricordo lontano di un ballo angelico e leggiadro agita le vesti di un mercante nudo, e la fugacità di un’occhiata e di un’illusione prende corpo lì dove un uccello colorato deforma un libro dimenticato.
    Voci tremolanti e gorgoglii di un altro mondo riempiono la sala di blasfemo, mentre la zattera salvatrice giunge in mio aiuto squarciando un velo spesso ed insuperabile di cupidigia e mutevolezza. Mi sento nuovo, forte, pronto a qualcosa che non mi appartiene, anelante ad un dono perenne e gelidamente certo; preparo la mente a nuove frontiere e la parola scivola intorno e mi rende vittima di un solenne abbaglio.
    L’uomo che siede al mio fianco è colui che cercavo, colui che ho visto e non ho più dimenticato, colui che reca con se misteri di città mai costruite e di anni non ancora venuti. Mi ha scelto, mi ha voluto, mi ha rapito e ora mi lascia accedere ai segreti immersi nelle sue paludi gracidanti e nei suoi percorsi allucinati.
    Intorpidito e vagamente savio immagino posti gustosi e pianeti minuscoli, uomini che volano e donne sole, animali curiosi e piante crudeli: la voce soffice è simile ad un arabesco fecondo che mi suscita pensieri, idee, che mi ipnotizza abbandonandomi all’ ebbrezza divinatoria, al movimento preciso di un tiratore scelto, alla lettura di un volo mistico.
    Non riesco a recepire ciò che mi viene detto, capisco nulla, cedo alla tentazione di estraniarmi; non riconosco più il timbro detestabile che mi fracassava le guance, lo confondo in mezzo ad altri mille suoni, rumori, aromi di spezie fresche e di latte munto.
    Chissà qual è il fine ultimo di un attimo, il significato puro e sfrondato di un addio, il concepimento e l’assegnazione di una missione. So solo che perdersi in un mare di solitudine è meraviglioso e appagante quanto il canto di un gallo giovane, e quando mi ritrovo a camminare per le vie fumose di una città magica, calpestando pietre cariche di storia, osservando edifici fascinosi, ripenso a quell’apparizione fugace, a quella curiosità morbosa, a quello sguardo magnetico, a quel viso disegnato. Un’arcana musa sussurra agli stipiti consumati una composizione sentita, già usata, chissà, forse ignorata.



    Svanito.
    Svanito.
    Svanito.
    Svanito come lacrima nella pioggia,
    come soffio nel vento,
    come fiamma in un incendio,
    come onda nel mare,
    come silenzio nella notte.



    Le credenze di una vecchietta impaurita rimettono in cammino i moti ottenebrati di una mente avulsa, fuori dai criteri di uguaglianza, ignorante regole basilari. Basta sognare, basta sentirsi un po’ profeti e un po’ traditori, bisogna agire, non si può sempre sperare. L’ora è propizia, l’ancella è volitiva e seduttrice, ammalia gli animi di uomini saldi, vigorosi, pii; tornerò a trovarti, amico buio, ragazzo dalla vicenda nuova e colma di germogli freschi, e allora vorrò conoscere la tua intimità, vorrò sapere se il gioco serve a muovere una giostra, a far sorridere un bimbo, a ridar speme ad un cammeo. Lavorato e squisitamente sobrio sembra l’edificio di mattoni azzurri che mi sovrasta chiedendomi il nome di mio padre, cercando disperato un appiglio sul muro del pianto atroce, interminabile, ghiaioso. La destra rappresenta un quadro discreto, mai terminato, magari abbozzato, e attira lo sguardo di un folle che seguita a passeggiare. Non posso pensare, continuo per decenni interi il corso di un letto arido e voglio raggiungere il punto indicatomi, quel luogo misero e infido, malleabile e opaco, gretto ed onestamente posseduto. Si trova al centro di un lago, in cima ad un monte, su un’isola ancora da scoprire, o forse è dappertutto, contenuto in un vaso pregiato ed unto. Il condottiero è fiero e abile nel vogare, nel trafiggere acque brune che specchiano una luna appena spuntata, ma già nuovamente coperta da un cappotto sdrucito. Ristoranti ininterrottamente chiusi ospitano festosi ricevimenti di vagabondi impelagati, che aspirano a bere, a dormire, a fare l’amore; lancio loro un pezzo di armatura luccicante e validissimo, donatomi da un re scomparso nel giorno dell’investitura. Conquisterò il mio flagello di mondo, stempererò un calamaio sfiorando un pane fragrante appena uscito. Il viaggio è generoso, un po’ stancante, mai noioso: fuori è notte, non vi è sole e le stelle di una volta si riparano minacciose dietro uno strato di carta argentata di bassa qualità.
    L’eco assurdo di marinai esperti indice un banchetto sempiterno al quale non posso rifiutare, e il percorso fiorito e brizzolato si accinge al congenito perfezionamento conclusivo, mentre il ceppo di un menestrello annoso lambisce le frastornanti sagole di un peculiare oggetto, capace di emettere suoni esasperati e giunonici. Le spie esagitate e agenti in segreto sormontano le giunture infruttuose; la sopportazione è accanita, intrepida, il porto è riparato e ormai guadagnato. Il piede si posa su un terreno imminente, accompagnato da leoni in carne e da vegetali amarognoli, da piantagioni di caffè e da cambiamenti apicali.
    Una fanciulla dall’emanazione non piccante si manifesta in un connubio bizzarro, in groppa ad un destriero lirico dalle sembianze arboree che nitrisce biecamente. Un biondo nugolo sprigiona pastosità e tenerezza, un’iride castana conviene con l’ordine totale, una bocca vermiglia e carnosa si schiude e pigramente mi si fa incontro, spremendo la fortuna.
    Affondati in un turbinio fuggevole di fiori di pioppo, creiamo una nostra porzione di universo, ce ne appropriamo, facciamo in modo che non esista niente se non noi. La passione sgorga mansueta ed incontrollabile, provoca eccitazione e voglia, desiderio di conquistare cime elevate e di abbandonare il platonismo di una vita non vissuta. Entrambi ricerchiamo frenesia, delirante tumulto sopraffino, decadente peso specifico di un nome comune. Il contatto fremente è duraturo, inscindibile, languidamente godurioso, e le proporzioni impetuose decretano il risultato di una partita estenuante, giocata all’inverosimile. L’ombra di un uomo calvo e dalle lunghe dita si staglia su un telone sbiadito, mentre un velo di garza sminuisce la potenza di fuoco di un obiettivo ben manovrato e capace di disegnare su un vetro la visionarietà di un danese. Il confronto è insignificante, il valore smisurato, la gioia irrefrenabile: le tentazioni di una donna fanno crollare i buoni auspici di un uomo parco, alla ricerca di qualcosa di grande e per fatalità perduto.
    Poeti stacanovisti tracciano il percorso dell’inchiostro, in grado di fissare nel tempo a venire una parola.
    Una parola si aggiunge all’altra, compiendo il ciclo perpetuo della formazione di un pensiero.
    Un pensiero fa riflettere, lascia sognare, sbatte contro il muro un’estremità delicata, è marchiato nella storia.
    La storia è maestra, declina il capo e fa sì che le ore passino, i giorni stingano, i mesi ritornino, gli anni finiscano, i secoli si ricordino; il passo di un goffo su un satellite meno luminoso illude di una conquista anomala, la caduta di un valore o un ideale riporta uno spirito di satollamento, abnegazione, frustrazione.
    Il bacio è dinamico, lo strofinio di due strisce scarlatte dona una direzione nuova ad una notte irreale, fatta di incontri, viaggi, panorami onirici.
    Surreale è tutto, il resto conta poco.
    Niente.
    L’armoniosità di una tela scritta da un bipede soverchia lo splendore del sesto affresco cultuale, intersecando lungo la rotta disapprovazioni e sbandieramenti, ma proseguendo agile e convinto verso la battigia Andalusa; lì, un cane mai apparso si sottrae alle attenzioni, ripudiando le prime serate e venerando i sonnambuli.
    La passione è suadente, il cavallo è statico e taciturno, la padrona magistralmente costruita. Non sussiste altro, si è dileguato il mondo, le preoccupazioni, le paure, le ansie, la cecità assoluta, l’esasperata volontà di avere, il tutto.
    Il timore della morte.
    La morte.
    La vita.
    A volte la sorte.
    Suona un campanello logoro, dal tremolio desueto: un esattore scheletrico reclama la vincita di una gara squilibrata, probabilmente truccata. Pilota cenere acre, distacco improvviso, senso di vuoto ed inutilità; ci chiede dazio, vuole noi stessi, manovra fili lattescenti legati a marionette da teatrino.
    Invischiati in una ragnatela complessa e senza sbocco, smaniosi di qualcosa di più, di appagamento, consci di non esser che ippocampi nella loro corsa spensierata, superba, altezzosa, la rapidità ci investe e comanda il pugno, stritola muscoli vitali, annichilisce intelletti senza confini; chi sa di non amare scaraventi una qualsiasi selce, rivolta ad una quercia secolare, e cerchi di abbatterla. I rami ponderosi guarniscono con gusto un empireo salubre, sentimentalmente striato di carminio fuoco, acceso d’entusiasmo infantile e avvenenza afrodisiaca.
    La ricerca di una destinazione è impresa inutile, dispendiosa, triste; tutto ciò per cui vale la pena vivere è la contiguità magmatica di due prolungamenti umani, esperti conoscitori del sapore e depositari delle papille, una mano passante tra capelli odorosi, mai pettinati, uno sprigionamento di emozioni ingovernabili, un trasporto totale.
    E sprofondati in quel tumulto di fiori di pioppo, io e la donna scesa dal destriero alato sperimentiamo l’originale significato di novantaquattro anni, di un volersi bene sincero, di un allontanamento forzato e angosciante, ma inevitabile e accettato.
    La morte.
    La vita.
    Di nuovo la morte.
    I mostri di una fiera negletta combattono oche e galline, in una saporosa miscela di amenità rurali: sullo sfondo, una rondine annerita contrasta la vastità di una nuvola carica scomparendo nei meandri di un flusso evaporato. Un sigaro va estinguendosi lentamente, ininterrottamente calpestato dai mocassini e dalle suole dei benpensanti assennati e perlopiù borghesi.
    Velocità e sconsideratezza: questo è quanto l’uomo dalle fattezze orientali mi aveva consigliato di adoperare durante le mie scorribande senza senso, e l’ammaestramento di un saggio è la cosa di cui più ho bisogno in un istante di generale disordine, di infusione nel miraggio di un nottambulo, di convinzioni scomparse.
    Flessione ombrosa di ideologie ancora da formulare, bassa selezione di musica ormai superata, caducità di cose smorte e reminiscenze di erogazioni platinate, trogloditi idolatri, barboni dormienti: la somma di migliaia di passi è riconducibile ad una fitta trama menomabile, che la mia mente tenta di costruire su fondamenta gettate inconsapevolmente da una piuma galeotta. La decisione è presa, inderogabile e assoluta: non sarà una stele ben scolpita ad arrestare le capacità di un volenteroso, ma gli incitamenti di una turba accanita lo porteranno ad erigere un palazzo immane, suddiviso in scene non collegate, irraggiungibili, fino a quando l’abitante dell’attico rarefatto non paleserà la genialità di un pazzo.
    La somministrazione guidata di un nettare maramaldo contrae il muscolo di un pittore malinconico, tendente alla rappresentazione astratta di teorie strampalate e al tratto mimato di una Babilonia isolata, priva di ponti e strade comunicanti, forse completamente disabitata.
    La donna bianca e mistica rilascia con uno schiocco le labbra di un viandante su nebbia crescente, avviandosi con passo incerto, fronte troppo spaziosa e bulloni mal fissati verso un punto disordinato di discreto quantistico. La certezza di anni di scartoffie tramuta il panorama circostante, giura sulla sua inesistente palpabilità, disintegra barriere alzate dallo scetticismo incondizionato, stolto, evitabile: la dipartita del destriero eburneo abbandona la lingua di terra incantata in uno stato catatonico, del tutto assente, e i miei piedi proseguono imprimendo nell’eternità ventura la forma e la testimonianza di una ricerca insensata, vuota, nulla.
    Intorno a me solo corridoi sorridenti e terribilmente brevi, disseminati di porte aperte e di finestre chiuse: pallidi e smunti volti si affacciano minacciosi, fissando occhi vitrei sul mio corpo emaciato, svestendomi, squadrandomi. Comincio a correre a perdifiato verso un fine che non conosco, lontano dalle mani tendenziose di creature evanescenti e malefiche: al di là del fosso intravedo ciò che lo strano uomo mi ha chiesto di raggiungere e tutto prende una piega mai immaginata dai neuroni spenti di un impiegato impettito.
    La casualità si mischia al criterio specifico di una scienza esatta, resa estrema e stonata; in fondo al viale desolato, con mattoni anneriti al posto di alberi lussureggianti, miracolosamente appare un frutto rosso, emanante un calore robusto e inebriante, posto su una colonna corinzia spezzata alla base. La corruzione conquista approdi vergini e immacolati, costringendomi al rapporto orale e al morso fatale: il succo è delicato, simile ad un’essenza suprema, ma allo stesso tempo decisamente intenso e coinvolgente. Scivola lentamente nella mia gola, affonda le lunghe braccia artigliando le viscere e rivoltando l’intero organismo. Avverto uno squarcio netto nella mente, mi si spezza la scatola cranica, aprendosi ad una visuale illimitata e non ipotizzabile. Ali carnose mi trasportano per onde debordanti, mi trasmettono energia e voglia immane; l’ambiente che mi circonda, pur rimanendo identico, assume connotazioni nuove, sensazioni diverse, forme smussate. Mi sento leggero come non mai, contengo a stento una frenesia contagiosa che bussa spazientita cercando una via di fuga, un modo per scatenarsi e sfogarsi. La lucidità intraprende velocemente una strada parallela, non vuol più saperne di sorreggermi e indicarmi il sistema per riacquistare le facoltà obsolete, da cui si cerca perennemente di sfuggire ma alle quali si chiede disperatamente perdono qualora esse vengano a mancare.
    Visioni walhallatiche mi colmano gli occhi e investono i miei sensi già scossi, incapaci di reagire in tempo e di formulare con certezza ciò che li travolge, sommergendoli e rendendoli insignificanti e transitori. Capisco in pochi secondi quello che non avevo appreso in una vita di studi e godo di libertà spropositata e frescura rilassante; continuo il mio volo spensierato e celestiale e tremo di terrore osservando la miseria che si svolge, nonostante tutto, milioni di chilometri sotto i miei piedi. I desideri sono stati esauditi. Grazie genio, non ricambierò ma le sono riconoscente, mi ha permesso una trasvolata rifiutata al sangue labirintico, mi ha concesso doni riservati agli eroi, ha sconvolto per sempre gli equilibri precari di una memoria allenata.
    Il paesaggio muta ancora e ancora e ancora, non mi sembra di scorgere altro se non scintille e zampilli di alienazioni varie e incontrollabili. Il crollo e la fine sono troppo improvvisi e inaspettati, mi gettano nello sconforto di un pianto cocente, mi rigano il cuore: perché proseguire e far finta di niente? Ne vale la pena? Forse no, ma avverto flebili tracce di figure sconosciute agitarsi nella mia mente chiusa e maledettamente piccola, opache ombre spingono e vogliono che schizzi subito le loro storie sofferte e conclusesi con l’intervento speranzoso di un inguaribile romantico.
    Mentre mi accingo ad imprigionare le loro anime, mi addormento, e sogno ciò che in quel giorno magico avevo vissuto.
    Avevo raggiunto l’estasi.
    Lestasi.
     
    .
  2. CarDestroyer
        Like  
     
    .

    User deleted


    La sagra dell'aggettivo e del sostantivo .
    Non è un racconto, e questo è chiaro, direi che si tratta di prosa poetica. Ho l'impressione che volessi creare la sensazione di velocità, di mutazione repentina. Visivamente è un caos (voluto) che spinge a cercare un nesso logico tra tutte le immagini che nascono l'una dall'altra, e continuare a leggere. Rimane il fatto che, con tutti gli aggettivi che metti per descrivere una singola scena, alla fine il lettore preferisce abbandonarla e passare alla successiva per vedere se spieghi qualcosa.
    Per un po' ho scritto anch'io cose simili, poi mi sono accorto che non le capiva nessuno e ho issato l'ancora.
    CITAZIONE
    immagino posti gustosi e pianeti minuscoli, uomini che volano e donne sole

    Gli uomini volano (fuori dalle scatole ) e le donne sono libere: marpione !
     
    .
  3. Ispirato dalle tenebre
        Like  
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE (CarDestroyer @ 6/7/2005, 20:34)
    La sagra dell'aggettivo e del sostantivo .
    Non è un racconto, e questo è chiaro, direi che si tratta di prosa poetica. Ho l'impressione che volessi creare la sensazione di velocità, di mutazione repentina. Visivamente è un caos (voluto) che spinge a cercare un nesso logico tra tutte le immagini che nascono l'una dall'altra, e continuare a leggere. Rimane il fatto che, con tutti gli aggettivi che metti per descrivere una singola scena, alla fine il lettore preferisce abbandonarla e passare alla successiva per vedere se spieghi qualcosa.

    Hai centrato diversi punti. Innanzitutto il fatto che non si tratta di un racconto, anche perchè succede ben poco se non nulla. La sensazione che intendevo ricreare, come giustamente hai notato, è quella di mutevolezza e "leggerezza", volevo che il lettore si sentisse trascinato in un viaggio incorporeo e si liberasse da tutti i vincoli. L'uso degli aggettivi è volutamente marcato e ha rappresentato una sorta di sfida, un vero e proprio esercizio di stile, ma mi rendo conto che sfavorisce una lettura svogliata. Sono legato a questo brano perchè ci ho riversato molte delle emozioni che ho vissuto in un determinato periodo della mia vita, ad una lettura molto attenta e approfondita si possono trovare tanti piccoli riferimenti al mio modo d'essere. Mi sono anche divertito ad inserire citazioni letterarie e cinematografiche, ma sono talmente tanto velate che alcune faccio fatica a scovarle anch'io.

    Cmq grazie per la lettura e l'analisi.
     
    .
2 replies since 5/7/2005, 12:35   144 views
  Share  
.