Sospirando l'inesistenza

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  1. Ispirato dalle tenebre
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    Definizioni astratte di concetti inesistenti.

    Il riquadro luminoso a tratti della mia auto segnalava una discreta penuria di carburante, sufficiente tuttavia a percorrere la strada che mi separava dal punto verso cui ero diretto. La nottata appariva ovattatamente serena, placida alle soglie della noia, forse priva di personalità, e i rumori provenienti dall’esterno del mio mondo non sembravano riuscire a soffocare la rassicurante cappa silente che avvolgeva edifici antichi e poco aggraziati. Un ragazzo camminava su un marciapiede con fare distratto e malinconico, scalciando di tanto in tanto un volantino, una lattina schiacciata o un mozzicone gettato; teneva le mani affondate nelle larghe tasche dei jeans, un paio di taglie più grandi, un po’ troppo piccoli per contenere il suo malessere traboccante. I suoi occhi erano fissi sul marciapiede che correva sotto di lui, che lo spingeva avanti verso nuove miserie; lui provava ad opporre resistenza, gettando il busto all’indietro per frenare la sua folle ed inutile corsa verso cosa, ma il tutto lo desiderava, lo risucchiava, lo avrebbe avuto. Non alzò lo sguardo quando passai, nonostante fossi l’unico segno di vita per strada a quell’ ora. L’orologio digitale incastrato nel cruscotto segnava le 3:46, e i cinque o sei minuti d’anticipo che solevo dare ai miei orologi per cercare di non essere mai puntuale infierivano poco sulla mia situazione. Distolsi lo sguardo dal ragazzo mesto e svoltai meccanicamente al bivio successivo, tanto, si sa, tutte le strade, prima o poi, ti portano dove non vorresti. Non che avessi deciso dove non andare quella sera (notte?), però la via imboccata iniziava a darmi delle impressioni sul luogo che inconsciamente avevo deciso di raggiungere. Un’altra strada. Un gatto in un bidone dell’immondizia. Un lampione. Nessun moscerino. Faceva freddo. Non troppo, ma abbastanza da tenerli lontani. Nessuna luce accesa penetrava dalle finestre opache e serrate. La città. La sua vita. La sua notte. La mia notte. Un signore anziano chiedeva probabilmente il mio aiuto, ma non lo vidi. Il signore anziano era in auto con me, apparentemente scrutando con attenzione la strada, caso mai sbagliassi o mi distraessi. Ero rilassato. Abbassai il finestrino per sentirmi sfiorare il viso dall’aria fresca e dissetante, assunsi una posizione comoda sul sedile dell’auto e continuai a guardarmi intorno. Il vecchio seguitava a non parlare e a muoversi poco. Nulla. Una bici era rotta. O forse abbandonata. Sotto un lampione. Di quelli col globo. Si, quelli tanto divertenti da centrare con i sassi. No. Pallida. Luce inquieta. Forme a volte nuove. Maledetti vetri sporchi. Ricordi fievoli mi bombardavano malignamente i neuroni stanchi, intorpidendo i riflessi di già obnubilati e carenti dalla nascita. Un suono vago proveniva da una traversa avvolta dalla polvere ed impenetrabile alla lince. Gemiti. Urla di nascite dolorose. Primi spasmi. Il vecchio era placido e trasmetteva serenità assoluta, con quel suo atteggiamento d’ostentata sicurezza e insensibilità alla condizione che di suo significava appena. Ci vollero alcuni istanti prima che muovesse una seppur minima parte del suo corpo e desse un qualche segno di vita animale: voltò lentamente il capo verso di me e allungò con sorprendente rapidità il braccio per afferrare lo sterzo e riportare l’auto sulla strada forse giusta, quella che stavo inesorabilmente abbandonando. Astraendo. Storpiando sensi. Godendo e sanguinando. Vagare in notturna può voler dire fondamentalmente due o tre cose: la frizione leggiadra di menti ed oscurità, che da secoli a questa parte genera capolavori e odi, ha sempre avuto un gratificante effetto sul mio sterile cuoio, un po’ stranito ma alla ricerca di qualcosa di più, di un viaggio, di un’assistenza, di un’ispirazione foss’anche fugace e non vera. Buio. Dissolvenza. Un attempato signore aprì a fatica gli occhi non proprio accesi e parve mutare estrinsecazione, inneggiando a voragini e creazioni inesatte, danzando danze, ondeggiando onde, volando voli. Elaborò una maschera goliardica e a volte ben riuscita che richiamava folclori di altre terre, tramandati oralmente da individui di altri archi temporali determinati dal caso. Lo spazio si mischiò rapidamente alle mie sensazioni alterate e frammentarie del nulla e del perché, restituendomi ad una valle immensamente piccola per l’universo. Il compagno di viaggio era imperterrito o atterrito, forse insensibile ma di certo attento all’ambiente nuovo. I palazzi alti evocavano visioni di paesaggi non visti ma a lungo agognati, per via del timore deferente che le cose troppo grandi creano intorno e di contorno a chi. Finestre ossessivamente ricorrenti, tante e dirette. Sguardi attenti ed anch’essi ritornanti. Voglia di capire quel che gira, con stile e grazia, ma con dannata scarsa intelligibilità. Scelte non chiare e gusti rinnovati, per fortuna. L’orizzonte diventava una sinuosa linea priva di senso dialettico ed illogicamente distante, dando l’impressione di trovarsi in lande troppo calde ed ancora sfrenatamente inesplorate: il tutto ovviamente depone a favore dell’autista dal finestrino abbassato, che si lasciava dondolare dall’aria fresca (molto) in un panorama altrimenti differente e di buon gusto. Magari antico e fatiscente, ma dal fascino indubbio. Obelischi? Non per ora. Porte. Portoni. Il cruscotto incastrato nell’orologio segnava le 4:12, un orario forsennato per vagabondare con uno sconosciuto in auto ed in un posto non visibile della città natale. Ridondanza e ricerca di qualunque cosa possa esser considerata tale: questo è fondamentalmente il perché della mia giovinezza forata e rinverdita a forza di tempeste uditive degne di un maestro delle pelli norvegese. Senza ovviamente precludere ponti verso tutto ciò che può essere nuovo, se novità diverrà mai sinonimo di emozione, bè allora ci saremo quasi, anche se pochi lo sanno e ancor meno vogliono o vorranno mai saperlo. Stelle senza cielo danzano supinamente urlando ed incespicando, dilettando l’occhio vigile dell’osservatore plutonico sempre più insospettito ed intimorito da qualcosa che va come non dovrebbe e che invece deve prendere quella piega. Milioni di anni troppo uguali. Vento. Balli sconosciuti ed esasperati. Combattendo ed eccitandosi per poco. Un vegliardo mi stringe il polso destro e d’istinto mi giro verso di lui e lo osservo per la prima volta da quando? era salito in macchina: avrà un centinaio d’anni, penso e dico tra me e le 4:14. Anno più mese meno, anche se gli occhi tradiscono uno spirito ed una forza d’animo intatta e sorprendentemente giovanile vecchia maniera, altrimenti meglio averne duecento, di anni, o lessarsi l’iride. Nonostante l’età apparente ha un’abbondante criniera pallida e disordinata tanto quanto basta per poter incutere rispetto; la carnagione è ricca, evidentemente solcata da onde e soli massacranti, provo il desiderio irrefrenabile di accarezzargli il viso e di leggere nel suo passato, posso farlo, signore? Mani callose e forti, bocca serrata e orecchie lunghe: la descrizione è più che traboccante, visto e considerato che ricordo poco o nulla di lui e di tutto il resto. Riflettendoci, mi era parso di accorgermi che fosse relativamente magro, con un lieve accenno di pancetta senile. Mutazioni incoraggiate dalla causalità totale ricreano una distesa piana e selciata, piatta e levigata al limite del non senso e dal sapore retrogrado e forse ellittico; una schiera di vuoto inghiottente eppure poco sorprendente invadeva la mia auto, per una volta anch’essa riflesso dello spirito. La distesa appare perfettamente circolare e soprattutto senza alcuna via d’uscita diversa dalla strada d’accesso: il mendace specchietto retrovisore non si direbbe d’accordo con tale constatazione, pensando ad un muro di mattoni rossicci troppo nuovi e fissanti insospettiti la mia targa. Si proceda avanti, dunque, essendo la direzione unica e consentita dalla semi-totalità degli esseri viventi o similari. Sollevo il piede dalla frizione e ruoto inconsciamente il volante a sinistra, dirigendo il vecchio e me stesso verso un punto talmente lontano da essere invisibile e convincendomi per la prima volta di stare sognando: alle 4:21 in quella città non esiste né può esistere un luogo del genere, ma tant’è, signora travolta, siamo in ballo, perché non ballare? E’ cosi’ che faccio, sin da quando decisi di mostrare sempre e comunque il mio reale stato di originalità senza vergognarmi di giudizi e occhi. Procediamo per un chilometro o anche più senza intravedere nulla, all’orizzonte non discernibile solo nulla, fino a quando l’anziano uomo al mio fianco, risvegliatosi dalla sua trance, non mi informa del quasi raggiungimento della meta ricercata. Fatico a comprendere il suo biascicato modo di parlare e mi concentro sul parabrezza ingombrante ed oscurante viste: il saggio non può fallire, ed ecco un portone di proporzioni ciclopiche pararsi davanti alle mie pupille sconvolte e vorticanti in un mondo a cui non sono mai appartenute e dal quale sono terrorizzate. Inchiodo e fisso il vecchio, a bocca spalancata e carico di domande inutili che evito di porgli, limitandomi ad accettare il suo consiglio o più credibilmente ordine di restar calmo, dato che ho sempre cercato quel luogo, e di scendere dalla mia auto per aprire il megalitico blocco di legno. Confuso ma non più spaventato scendo e, dopo aver delicatamente richiuso la portiera, mi guardo attorno attentamente senza riuscire tuttavia a scorgere niente di sorprendente o scioccante: non che dovesse per forza esserci qualcosa del genere, ma la situazione consigliava prudenza. Oltretutto ho sonno, ed anche tanto: desidero un letto che non c’è, altrimenti non lo desidererei neanche, e su questo siamo tutti d’accordo. Frattanto mi rendo conto di esser bagnato da capo a piedi, quasi come se mi fossi immerso in una vasca da bagno infinita qual’è l’atmosfera plumbea. Piove.
    Percorro passi incerti, titubanti, passi leggeri e un po’ desueti che sembrano danzare e gioire della classicità dei ciottoli, delle volte, delle mura, delle grida umane. Il portone (sarà giusto chiamarlo così?) è alto in maniera imbarazzante, alzo lo sguardo al cielo permettendo alle pesanti gocce di levigare il mio viso e non riesco a scorgere il punto in cui il legno cede il testimone allo spazio tridimensionale. Mi avvicino ad una sorta di chissà e ci appoggio la mano, lentamente, con riverenza fuori luogo e calma altrettanto eretica: al solo contatto il tutto si schiude alla vista, ma torno sui miei passi per rientrare in auto e proseguire, non ho voglia di sapere. O forse si. Il vecchio è teso, cambia spesso posizione e ha lo sguardo fisso sullo specchietto retrovisore. Quasi scompare nella sua vecchia e sdrucita giacca autunnale, diventa piccolo, si accascia e inizia a farfugliare in maniera disorganizzata, inconcepibile, reietta. Lo fisso e ascolto, senza sentire e senza capire, innesto la prima e faccio lentamente il verso di partire ma percorsi un paio di metri urto qualcosa. Piove troppo e si vede poco, è scuro, è notte, ho la vista annebbiata in una città non mia. La ricerca può aver fine? Ricerca di cosa? Cosa faccio qui? E’ tardi.
    Ho una spia che lampeggia ma non so neanche cosa diavolo sia, mai saputo prima d’ora della sua esistenza e non credo che d’ora in poi cambierà il mio modo di vedere il mondo.
    Disgregazione.
    Il vecchio impaurito. Ho urtato qualcosa. Perché penso alla spia?
    Ordine.
    Il vecchio è impaurito perché ha visto qualcosa nello specchietto.
    Probabilmente ho urtato quello stesso qualcosa visto dal vecchio o un suo simile.
    Forse così può andare, banalizzando.
    Sospiro, fortemente, e guardo intorno a me con apparente lucidità e fermezza. Non scorgo nulla di interessante, strada buia davanti, portone aperto che dà su una altrettanto buia e lunga via, pioggia intorno. Specchietto retrovisore sporco. Latte sul parabrezza posteriore.
    Latte? Mi dedico diligentemente alla pulizia del vetro, sistemo il retrovisore e guardo meglio. Bianco è, ma non propriamente liquido, anzi, piuttosto lo definirei materia movente, membri giovani e sottosviluppati poggiano teneramente sul mio mezzo e si spostano con fare circospetto. E il vecchio? E’ raggomitolato, trema. Occhi rossi lo fissano con odio. Che diavolo succede e dove ci troviamo? Rimetto in moto (quando si era spenta?) e provo a partire, in uno stato mentale prossimo alla piattezza elettroencefalica. Nessun impedimento pare fermare la nostra corsa, la nostra fuga da un posto sconosciuto ed inospitale verso un posto sconosciuto ed abbastanza buio da far sentire il bisogno di una torcia. Fari rotti, ovvio. Procedo e nessuno sembra seguirmi
    seguirci
    e la strada non sembra avere fine. Voglio non esistere.

    Edited by Ispirato dalle tenebre - 6/7/2005, 19:53
     
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