Mercanti e Schiavi

Nel Mondo Di Areck 1

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  1. Zeruhur
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    Nel mondo di Areck

    Il mare echeggia, infrangendosi sulle spigolose rocce affioranti dalle acque, pochi metri sotto alla finestra. Questa torre è sospesa sopra l’irruente oceano e già più di una volta ho temuto di sprofondare con essa. E’ una rocca così vetusta e fatiscente che non mi stupirebbe se nottetempo i flutti la inghiottissero. Un tempo era un luogo glorioso, il più estremo baluardo di un’antica civiltà scomparsa nelle nebbie del tempo. Ora è solo un rudere sgretolato che cade attimo dopo attimo nelle profondità dell’oceano. Eppure questo è il luogo del mio spontaneo esilio, su questo masso in balia dell’oceano ai margini delle rotte più impervie e meno praticate. Sono ormai anni che attendo la fine qui. Sono vecchio e ho deciso che il mondo mi ha dato abbastanza e parimenti non gli devo più nulla. Eccetto forse un’ultima cosa…
    In questa fredda stanza in cima alla torre, dove la brezza del mare si insinua gelida nelle mie vecchie ossa, circondato di pergamene e pesanti codici, sto scrivendo senza posa. Allontano le tenebre con le flebili fiamme di mozziconi di candela sfiniti. Perché ho da raccontare un’ultima storia…


    Mercanti e schiavi
    La brezza spirava salmastra dal porto antico, fin su attraverso le strade tortuose che conducevano alla piazza principale. Quel giorno era attraccata una nave di terre lontane, un lungo viaggio l’aveva condotta ai confini del mondo per trasportare il suo prezioso e richiesto carico: avorio dal Vishuur, seta del Kithar, spezie dal Gongodar… Solo i più ricchi potevano permettersi tali lussi. I gabbiani volteggiavano sopra gli alberi delle navi e all’orizzonte sopra la distesa azzurra e immensa in cerca di gustoso pesce. Il porto era stato costruito in ere antiche, ma dopo secoli e millenni restava sempre operoso e gremito di velieri e imbarcazioni di ogni tipo che tutte le mattine attraccavano portando al mercato beni lussuosi o semplice e delizioso pesce pescato la notte precedente. Da ogni dove giungevano in città, per commerciare al mercato permanente dalle ricche e colorate bancarelle. Da queste si sprigionavano sublimi aromi d’ogni sorta: cannella, incensi… e perfino la frutta e i fiori emanavano profumi da lontano. Per le viuzze ancor più ristrette dal mercato, sull’acciottolato, persone di ogni ceto passeggiavano in cerca di un buon affare: nobili sulle portantine accompagnati da piccoli eserciti di servi, ricchi mercanti dalle fluenti, colorate e profumate vesti a volte di foggia esotica e infine semplici popolani dalle tuniche scolorite e logore e perfino accattoni cenciosi e puzzolenti in cerca di carità.
    Il mercato si estendeva per circa seimila passi, dalla grande piazza che si affacciava sulle banchine del porto e seguendo la tortuosa via ascendente verso la piazza del Grande Tempio del dio Kranuth. Nei tempi antichi, prima che Krisnath il Conquistatore fondasse con le armi e il sangue l’Impero di Anhover, molti erano gli dei venerati nei Regni Antichi. Di quei regni e di quegli dei era stato cancellato il nome. Krisnath impose il ferreo culto dell’Unico Dio Kranuth. Dopo tremila anni non era ancora chiaro se Kranuth fosse il dio protettore del misterioso popolo del tiranno o la rappresentazione del sole o la divinizzazione dell’imperatore stesso. I due nomi stessi erano molto simili e si dava quasi per certo che il vero nome di Krisnath fosse un altro.
    Quando tuttavia la stirpe di Krisnath si spezzò e dopo lunga lotta intestina i Nubris salirono sul trono, la tolleranza religiosa era stata restaurata. Ma il culto di Kranuth gettava ancora la sua ombra ed era ancora di vigore e potenza, soprattutto nelle città più antiche, come appunto il porto di Nirot, dove il Grande Tempio era centro di riferimento sia religioso che politico. Non a caso il mercato congiungeva il porto e il Tempio: la ricchezza e lo spirito, il mare e il cielo.
    In quello stupendo giorno di sole e brezza, Kirrian aveva optato per godersi il mercato anziché le lezioni di magistro Zoreck. Non riusciva a ritenersi fortunato, a sedici anni compiuti, di avere il grande privilegio di usufruire di un’istruzione, quando molti alla sua età erano considerati già uomini fatti, spesso con una famiglia propria a carica e un lavoro. Non capiva nella sua viziata arroganza che la vita per i ceti meno abbienti era un inferno quotidiano di lotta per la sopravvivenza.
    Si era sempre vestito di abiti preziosi e cosparso dei profumi più rari. Suo padre, forse nel tentativo di supplire alla perdita della moglie, lo aveva viziato oltre ogni dire. Anagraficamente Kirry poteva forse definirsi un uomo, ma non ne dimostrava affatto la maturità.
    Mal sopportava le lezioni private di Zoreck, così quella mattina di buon ora era uscito di caso prima che l’insegnante bussasse al portone. La servitù non aveva fatto caso a lui, abituato alle intemperanze del ragazzo, mentre suo padre era uscito all’alba per condurre i suoi affari quotidiani alla Loggia dei Banchieri.
    Molto spesso Kirrian aveva saltato le lezioni e benché Zoreck avesse sempre fatto presente al padre le negligenze del giovane, il maturo banchiere non aveva mai cercato di rimproverare il figlio, ben sapendo che sarebbe stato del tutto inutile.
    Kirry passeggiava nella calca del mercato, schivando i passanti e gli acquirenti, fermi a contrattare, incurante del fatto che i suoi ricchi abiti potessero destare l’attenzione di qualche malintenzionato.
    Gli scippi erano all’ordine del giorno e le scarse guardie cittadine erano insufficienti per mantenere l’ordine o addirittura proteggere i ricchi e i nobili. Per questo solitamente le portantine erano accompagnate, oltre che dai servi, anche da guardie armate private, mercenari esperti, spesso ex-soldati caduti in disgrazia, ma fedeli ai signori che garantivano loro protezione e un lauto stipendio in monete d’argento. Capitava ovviamente che alcuni di essi tradissero il proprio signore. Di rado però si facevano complici di sequestri, perché questo comportava grande disonore perfino per un mercenario stipendiato. Oltre tutto erano un vera imprudenza aggirarsi per la città senza protezione.
    Kirry d’altronde era uno spavaldo ed imprudente giovane che pensava di non attirare l’attenzione e anzi scioccamente credeva di poter tener testa ad un eventuale aggressore, forte delle lezioni di lotta e scherma che seguiva sin da quando era bambino.
    Tuttavia la sua mancanza di disciplina non gli aveva permesso di potersi iscrivere all’accademia militare, come aveva sempre sognato. In realtà Kirry sospettava che dietro al rifiuto dell’accademia ci fosse la mano del padre che era riluttante ad allontanare il giovane da casa. Questo era stato uno dei rari motivi di attrito da padre e figlio e da quel momento Kirry aveva sempre più spesso disubbidito in segno di ripicca e suo padre, forse perché si sentiva colpevole, non aveva più cercato di mondare il carattere ribelle del figlio.
    Il mercato non molto spesso era teatro di isolati casi di violenza inaudita e inaspettata. Erano momenti di puro terrore per passanti e mercanti che si ritrovavano catapultati in uno scenario di sangue e ferocia repentini e incontrollati. Era facile capire quando questo accadeva. Rari erano i casi in cui la folla si disponeva a cerchio attorno ad una bancarella e solo due potevano essere i motivi possibili: l’esibizione di un musico, di un giocoliere, di un saltimbanco o un grave accadimento.
    Kirry non era stato molto fortunato quel giorno. Aveva scelto l’ora sbagliata per recarsi di nascosto al mercato, pagando per la prima volta per la sua stupidità. Poco passi d’innanzi a lui infatti la folla aveva fatto cerchio tenendosi lontana, spaventata, dalla ricca bancarella di tessuti di un mercante dagli abiti vistosi, spaventati ma al contempo incuriositi. Incurante del potenziale pericolo e anzi curioso di vedere cosa avesse spinto gli astanti a tenersi lontani dal banchetto, si fece strada nella calca quasi a spintoni e si ritrovò in prima fila, ai confini del cerchio umano. Davanti a lui, a meno di cinque metri, un uomo scuro, dalla corporatura robusta e muscolosa e dalla notevole altezza minacciava il pavido mercante. Era sicuramente originario delle savane del Vishuur: la pelle scura, color ebano, l’altezza superiore alla media, il corpo poderoso anche se per nulla appesantito, denunciavano la sua stirpe. Da dove si era posizionato, Kirrian riusciva perfino a vedere i dettagli del volto truce: gli occhi color ghiaccio penetranti e minacciosi, la linea del viso snella ma dalla massiccia mascella, la testa completamente rasata, liscia e quasi lucida alla luce del sole. Non aveva ancora pronunciato una singola parola e la sola presenza non presagiva nulla di buono. Era immobile e statuario e questo già bastava ad incutere un timore inspiegabile ma profondo in tutti gli astanti, Kirry compreso. Non osava immaginare cosa provasse dentro di sé il piccolo mercante grassoccio, inanellato con ricche pietre e vestito di profumate sete, sicuramente provenienti dal Kithar. Ma il suo volto deformato dal terrore lasciava trasparire tutte le emozioni che in altro modo non riusciva ad esprimere. La voce gli si era strozzata in gola.
    Il silenzio era l’unico suono che aleggiava nell’aria e nel raggio di parecchie decine di metri. La folla dei curiosi era aumentata, paralizzando il mercato, collocato come era in quella stretta via. Tutti temevano il peggio o almeno era quello che si leggeva sui volti. Alcuni erano paralizzati come e più del mercante, altri mostravano indifferenza e infine altri ancora quasi divertimento o forse pietà per il destino incerto del grassone. Ovviamente della guardia cittadina non c’era la benché minima traccia.
    Kirry ancora non sapeva cosa fosse successo per irritare il vishuuriano. Era arrivato a fatto già compiuto e aspettava che uno dei due interessati parlasse per capire la natura del litigio. Non si aspettava certo e forse ingenuamente la reazione del nero. Reazione che invece i cinici disincantati davano quasi per scontata.
    Con una voce limpida, calcolata ma minacciosa, incredibilmente assolutamente priva di accento, il vishuuriano pronunciò le sue uniche parole:
    “Cane! Questa non era la cifra pattuita per le tue sete, vile e grasso maiale.”
    Con un gesto impercettibile, repentino e fulmineo, il nero estrasse la lama ricurva dal fodero e con un singolo gesto preciso, tagliò di netto la testa del mercante. Tanto la lama era affilata e il colpo preciso, che la testa non cadde subito ma qualche attimo dopo che il nero aveva rifoderato la spada. Un filo di sangue colò dalle labbra del mercante, il tempo necessario a rendersi conto della propria orribile fine. Poi il capo cadde a terra e il corpo si afflosciò senza vita. Poi la testa incominciò a rotolare finendo esattamente ai piedi di Kirry. L’espressione sbarrata degli ultimi istanti di vita lo fissò dal basso.
    Non riuscì a contenersi: vomitò tutta l’abbondante colazione di poche ore prima praticamente sulla testa mozzata e si accasciò al suolo. Era quasi sul punto di perdere i sensi. L’ultima cosa che vide era la chiazza di vomito mista al sangue che usciva copiosa dalla testa mozzata. Ma prima che potesse davvero svenire, qualcuno in mezzo alla folla gli inferì un colpo violento alla testa facendogli perdere i sensi. Poi nella confusione generale delle grida e dello sgomento del momento precedente, venne trascinato nell’oscurità del vicolo più vicino.

    2.
    L’ambiente era buio e umido. Kirrian non capiva precisamente quanto fosse grande la stanza poiché era circondato da una tenebra impenetrabile che non lasciava intuire forme e contorni. Aveva tastato la parete nel suo perimetro per cercare di dare una dimensione alla stanza, ma i muri erano bagnati e viscidi. Un tanfo acre di piscio pervadeva lo stanzino, che si era rivelato piuttosto piccolo. Solo il portellone di solido metallo aveva una parvenza di solidità, sebbene fosse ricoperto da muffe e muschi. Era una cella davvero minuscola, senza finestre, dove nessun tipo di luce riusciva a penetrare.
    Aveva ormai perso la cognizione del tempo. Forse erano passate ore o forse interi giorni. Riusciva ad addormentarsi solo quando era allo stremo e non potendo contare su nessun riferimento non sapeva per quanto effettivamente dormisse. Se sonno si poteva definire. Era più che altro uno stato di eterno dormiveglia ai confini dell’incubo. Nel buio sentiva strisciare creature, piccole o grandi che fossero e a volte percepiva il loro tocco sulla nuda pelle. Si era reso conto che le sue eleganti vesti erano state sostituite con ruvidi stracci, una specie di tunica corta sporca e logora, che prudeva al contatto. La paura delle creature, insetti, topi o qualsiasi cosa fossero, non riusciva a permettergli di addormentarsi. Temeva che gli scarafaggi entrassero negli orecchi o che qualcosa di velenoso lo mordesse. Non capiva davvero perché si fosse ritrovato in quella situazione. L’ultimo ricordo era la scena raccapricciante del mercato, quando il gigante nero aveva decapitato il mercante e la vista del capo mozzato lo aveva fatto quasi svenire. Qualcuno però, lo ricordava chiaramente, lo aveva tramortito prima che potesse farlo.
    Il fruscio delle creature era accompagnato da un incessante gocciolare d’acqua dal soffitto al pavimento. Il suono ripetitivo lo stava portando alla follia.
    All’improvviso sentì un rumore sordo e metallico, di serratura arrugginita e un fascio di luce lo colpì in pieno. L’improvviso bagliore, dall’oscurità in cui era avvolto, lo accecò. Ma non durò a lungo. Un suono secco di oggetto gettato e poi di nuovo il buio. Kirrian cercò a tentoni l’oggetto appena lasciato nella cella, immaginando cosa potesse essere e non intenzionato a lasciarlo alla mercé delle bestie che condividevano con lui il lurido tugurio. La ciotola conteneva una sostanza viscosa che riusciva a identificare come una pappa di cereali molto compatta che poteva essere consumata con l’ausilio delle sole mani. Non si erano curati di fornirgli un cucchiaio. Il sapore era veramente terribile: la pappa era fredda e rancida, ma si costrinse a buttarla giù, ben sapendo che altro non gli sarebbe stato dato. Né poteva sapere quando i suoi carcerieri sarebbero stati nuovamente mossi a pietà. Trangugiò avidamente l’orribile pietanza. Lo stomaco si contrasse e a fatica resistette dal rigurgitare, evidentemente non mangiava da parecchio e il suo corpo ora faceva fatica ad accettare repentinamente il cibo. Con un grande peso sullo stomaco, che almeno ora era pieno, incominciò ad analizzare la situazione. Ancora non capiva perché fosse stato rapito. La risposta più ovvia era la posizione di suo padre e il cospicuo riscatto che sarebbe stato disposto a pagare per il suo rilascio. Ma questa situazione non giustificava il pessimo trattamento al quale lo stavano sottoponendo. La speranza di essere liberato incominciò a vacillare, quando improvvisamente un’innaturale sonno lo colse, facendolo accasciare nel lurido pavimento della cella.

    Come in un incubo sfocato e allucinante, forme umane indistinte si muovevano attorno a lui, lo esaminavano, si chinavano su di lui, lo tastavano. Ebbe una sensazione attutita di essere preso al mento e con forza qualcuno muoveva la sua testa aprendogli la bocca per esaminargli denti e cavo.
    Non era abbastanza lucido per rendersi conto che il cibo non era stato segno di pietà, ma che aveva uno scopo preciso: era stato drogato per permettere a quegli uomini di avvicinarsi senza temere una sua malevola reazione.
    Un uomo parlò, ma la sua voce giunse distante e distorta: “E’ un ottimo capo, guardate i denti! Sono sani e forti, non c’è segno di marcescenza. Non è particolarmente robusto, ma è sicuramente forte di aspetto gradevole. Ci guadagneremo parecchio dalla sua vendita! Però non è il caso di lasciarlo in questo lerciume. Tiratelo su, lavatelo e mettetegli una tunica pulita. Lo voglio nel lotto numero tre per la vendita di questo pomeriggio.”
    Sentì due paia di forti braccia dalla presa ferrea tirarlo su di peso. Poi di nuovo l’oscurità.

    Si risvegliò incatenato ad una panca. Non era solo: una fila di persone più o meno della sua stessa età era seduta con lui in uno spazio abbastanza stretto poggiato su una pedana di legno, chiusa sul retro da un pan nello di listoni di legno e sul davanti da una pesante tenda scura che emanava un odore stantio di muffa. Questi elementi gli suggerirono la forma di una grottesca caricatura di palcoscenico. Lo stato della “merce” era decisamente al di là della decenza umana: erano tutti nutriti appena da dimostrare un minimo di sanità, sporchi e vestiti di stracci luridi e lisi, alcuni erano in condizioni decisamente peggiori di Kirrian, altri praticamente ridotti allo stremo. Un ragazzo a tre posti alla destra di Kirrian era addirittura svenuto e della bava schiumosa colava dalla bocca fino al petto. In quell’ambiente male illuminato l’aria non riusciva a filtrare e i ragazzi incatenati emanavano un tanfo simile a quello di una stalla, se non peggio. La situazione era ai confini della realtà e a Kirrian si stampò sul viso un sorriso ebete che non aveva nulla a che fare con la drammatica situazione. Gli sembrava di vivere il peggiore degli incubo o di essere diventato improvvisamente qualcun altro, un poveraccio vestito di stracci, sporco, contuso e puzzolente sbattuto all’asta degli schiavi come un qualsiasi cane di strada.
    All’improvviso il sipario si aprì e la luce esterna, seppure sempre fioca e insufficiente, accecò i ragazzi incatenati, ormai abituati alla quasi totale oscurità. L’effetto non fu rapido a svanire: i giorni passati nella cella lurida e buia avevano abituato la sua vista ad una specie di cecità simile a quella delle talpe. La luce entrò come una lama accecante e incandescente dentro i suoi bulbi oculari.
    Quando finalmente riuscì un poco ad abituarsi alla ritrovata luce l’asta era già incominciata e la voce stridula del battitore aveva già iniziato ad illustrare i capi. Questi era un uomo basso e rozzo, dall’incipiente calvizie e dall’aspetto estremamente trasandato: i suoi denti erano marci se non caduti del tutto e un occhio presentava una biancastra cataratta. Grottescamente indossava un abito falsamente elegante ma in realtà decisamente pacchiano.
    Per distogliere lo sguardo dall’omuncolo, Kirrian lo volse verso il pubblico: una massa di manigoldi, mercanti di schiavi che acquistavano la merce e dovevano salpare il giorno stesso: così era la legge dell’Impero. Il ragazzo non potè credere di essere diventato uno schiavo, era una realtà talmente estranea dal suo modo di vita che a stento aveva sentito le voci che giravano sull’occulto commercio di uomini che l’Impero ufficialmente condannava, ma che tollerava e addirittura segretamente cercava di regolamentare. Sostanzialmente ai cittadini di Anhover non era permesso di possedere schiavi, ma il commercio verso altre nazioni era tollerato.
    Kirrian si sentì perduto: aveva sperato in un rapimento, con lo scopo di ricattare il suo ricco padre, ma ora la realtà lo colpì alla bocca dello stomaco come un pugno ben assestato. Sarebbe stato venduto.
    La voce stridula del battitore intanto continuava ad esporre la merce: “…un lotto davvero magnifico signori, un’occasione che non potete farvi sfuggire. Tutti in condizioni sopra la media, gente fresca e giovane che abbiamo procurato di recente. Nessuna fregatura! Niente schiavi di seconda mano, nessun malato o moribondo. Certo ora li vedete in condizioni non proprio ottimali, ma dovete tenere conto della nostra difficoltà di mantenere questo esercizio…”. L’omuncolo continuava a blaterare ovvietà con i soliti sordidi trucchi, che avrebbero potuto abbindolare gli stolti ma non gli astanti che erano i più esperti commercianti di schiavi di Areck. Infatti il pubblico poco badava alle parole del battitore e osservava con maggiore attenzione il palco. Il loro attento sguardo non era facilmente ingannabile, troppi truffattori si aggiravano alle aste.
    E poi Kirrian lo vide. Svettante su tutto il pubblico, dalla sua notevole altezza, con le braccia conserte e la mascella serrata, il vishuuriano dominava l’ambiente. Gli altri mercanti a lui vicini sembravano intimiditi dalla presenza del gigante nero, che non li degnava della minima intenzione, ma anzi volse il suo sguardo di ghiaccio direttamente verso Kirrian.
    In Kirrian si fece strada una sensazione di inquietudine. In quel preciso istante, come se si trovasse di fronte ad un affresco, in una sorta di illuminata preveggenza, vide il suo destino dipanarsi davanti a sé. Negli occhi azzurri del nero vedeva il colore del mare, la tinta del suo futuro. Lo spazio intorno a lui si restrinse in una piccola sfera percettiva, i suoni divennero ovattati e distanti, il tempo si dilatò a dismisura. Percepiva i movimenti attorno insostenibilmente lenti, la voce stridula del battitore giungeva distorta, come una specie di miagolio.
    Poi una voce rimbombò nella sua mente come un tuono: “Kirrian!”
    Lo sguardo del vishuuriano lo trafisse come un fendente di spada diretto al suo cervello. Poi tutto tornò alla normalità con una brusca accelerazione.
    Il brusio della sala tornò fastidioso e Kirrian sentì il martello del battitore schioccare. La voce stridula tentò di sovrastare il mormorio di tutti gli acquirenti presenti in sala: “Aggiudicato all’alto capitano vishuuriano”.
    Il nero a braccia conserte strinse la mandibola e distolse lo sguardo da Kirrian. Il ragazzo impiegò alcuni istanti per comprendere quanto era accaduto: era stato venduto insieme agli altri schiavi del suo lotto al capitano vishuuriano.

    3.
    Erano in fila, incatenati alle mani e ai piedi, cercando di camminare faticosamente. Un ragazzino gracile in quarta fila arrancava rallentando i movimenti dell’intero gruppo.
    Un uomo basso e tozzo dalla pelle ambrata, vestito solo con un paio di ampie braghe tenute alla vita con una fascia di tessuto povero, teneva nervosamente una frusta ripiegata nella mano destra, pronto a schioccarla.
    Il ragazzino gracile inciampò in un sasso del selciato disconnesso del molo, causando la caduta di tutto il gruppo. L’aguzzino non esitò a dispiegare la frusta e a schioccarla violentemente contro il colpevole.
    “Non ammetto queste perdite di tempo! Devi imparare a stare al tuo posto miserabile pulce!” Incominciò a infierire sadicamente sul ragazzo nel tentativo di farlo rialzare, ottenendo tuttavia l’effetto opposto, indebolendolo ad ogni frustata sempre più. All’ennesima frustata una mano imponente bloccò il braccio dell’aguzzino e lo torse. Guardandosi alle spalle vide l’imponente figura del capitano di fronte a sé. “Capitano io…” gemette con tono implorevole.
    L’espressione del vishuuriano era dura, la stessa che Kirrian conosceva bene: quella che il capitano aveva al mercato il giorno che aveva decapitato il mercante di tessuti.
    “Ti diverti forse?” disse esercitando una pressione sempre maggiore sul braccio del suo uomo. “Perché non c’è proprio nulla di cui divertirsi, stai riducendo una mia proprietà ad una larva a suon di frustate. Ti ho forse autorizzato a questo sfoggio di sadismo?” Il suo volto era impenetrabile.
    Il marinaio incominciò a lacrimare tra i gemiti, la torsione era tale che in breve il braccio si sarebbe spezzato. Infatti pochi istanti più tardi il tipico suono di ossa che si rompono raggiunse gli orecchi di tutti. Il marinaio lanciò un urlo disumano che fece sbiancare gli schiavi.
    Questa volta Kirrian riuscì a resistere all’impulso che proveniva dal suo stomaco. Il marinaio cadde a terra tenendosi il braccio rotto e gridando in modo convulso.
    “Sulla mia nave non c’è posto per i cani che non rispettano la mia proprietà” pronunciò ad alta voce il capitano con tono sprezzante. Poi impartì un secco ordine ad altri due marinai con un gesto. I due liberarono dalle catene il ragazzino tumefatto e sanguinante. Il nero si accovacciò ad esaminarlo e scosse la testa. Con un gesto veloce estrasse la sua spada e lo finì.
    Il suo sguardo passò sugli schiavi con una lunga panoramica, poi con voce chiara ed autoritaria disse: “Voi siete una mia proprietà, che questo sia chiaro” Sguardi di odio si rivolsero verso il capitano. Kirrian prudentemente cercò di abbassarlo e lo puntò verso terra.
    “Voi mi odiate, non è così? Bene, non pretendo certo amore da parte vostra” rivolse lo sguardo verso il corpo esanime del ragazzino che aveva appena ucciso “Non era certo mia intenzione che finisse così” disse indicandolo “Ma quel cane aveva altre intenzioni, evidentemente. Di questo risponderà a me” fece una pausa e tornò ad indicare il cadavere “Quel ranocchio non sarebbe sopravvissuto alle lesioni, perciò l’ho graziato con le mie stesse mani. Ma in fondo non devo certo giustificarmi con voi.” Con un gesto secco ordinò ai suoi uomini di far procedere la fila verso la nave.
    Il vishuuriano rimase indietro con il marinaio cui aveva spezzato il braccio. Mentre si allontanava con la sua fila Kirrian sentì il nero rivolgersi all’uomo: “Non pensare che ti ucciderò, uomo. Sarà molto peggio per te. Vivrai nella consapevolezza di essermi debitore il che è di gran lunga peggiore della morte. Quello schiavo mi è costato denaro e tu…” Allontandosi ulteriormente Kirrian non fu in grado di sentire altro.
    “Avanti ragazzi, cerchiamo di evitare altri incidenti” disse il marinaio che evidentemente aveva preso il posto dell’altro. Il suo tono era tutto sommato gentile e il gruppo procedette senza altre esitazioni lungo la passerella sul ponte della nave. Furono condotti nella stiva dove le catene vennero affisse su dei ganci conficcati nel legno della nave.

    Le operazioni di carico durarono tutto il pomeriggio: il lotto di schiavi non era stato l’unico acquisto del vishuuriano a Nirot. Tuttavia Kirrian poteva solo sentire, nel buio della stiva, il vociare degli uomini di bordo che caricavano altre merci che venivano issate sulla nave e poi collocate in altri scomparti della stiva. Gli schiavi possedevano uno scomparto separato a loro dedicato.
    Quando la nave prese il largo, lo scricchiolare del legno rivelò il rollio. Kirrian si sentì perduto. Nella sua mente immaginò la nave che superava il molo del porto antico e l’isola artificiale su cui sorgeva il faro. Dopo qualche istante era consapevole che stavano superando le dighe costruite al largo del porto che segnavano il confine con il mare aperto.


    Edited by Zeruhur - 10/4/2006, 21:31
     
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  2. Jake_the_Angel
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    sto per disconnettermi... salvo la pagina, e poi... spero di ricordarmi di postare il commento...!
    ciao
    Jake

    ps: sempre che sia gradito, sennò le mia impressioni le tengo per me, ok?
     
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  3. CarDestroyer
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    Bestia! Me n'ero scordato :o: : per domani lo leggo e posto il commento ;) .
     
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  4. Zeruhur
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    tutte le impressioni sono gradite, ho revisionato il testo ora sostituisco
     
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  5. CarDestroyer
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    Il primo capitolo lo avevi già postato o sbaglio :blink: ? Dunque, ti lasci ancora trascinare dagli aggettivi, di cui è zeppo il racconto, ma il vero problema è che cerchi di dare spiegazioni per tutto ciò che accade -_- .
    Ad esempio in
    CITAZIONE
    Kirry d’altronde era uno spavaldo ed imprudente giovane che pensava di non attirare l’attenzione e anzi scioccamente credeva di poter tener testa ad un eventuale aggressore, forte delle lezioni di lotta e scherma che seguiva sin da quando era bambino.
    Tuttavia la sua mancanza di disciplina non gli aveva permesso di potersi iscrivere all’accademia militare, come aveva sempre sognato. In realtà Kirry sospettava che dietro al rifiuto dell’accademia ci fosse la mano del padre che era riluttante ad allontanare il giovane da casa. Questo era stato uno dei rari motivi di attrito da padre e figlio e da quel momento Kirry aveva sempre più spesso disubbidito in segno di ripicca e suo padre, forse perché si sentiva colpevole, non aveva più cercato di mondare il carattere ribelle del figlio.

    commetti due errori: spiegare a chiare lettere il carattere di Kirry come farebbe un carabiniere (non me ne voglia l'Arma :) ), e dare un sacco d'informazioni sulla vita del giovane.
    Piuttosto, per risolvere il primo problema, fai agire Kirry in modo consono al suo carattere per le vie del mercato; il secondo problema, similmente lo si risolve lasciando al lettore il compito di immaginare che tipo di vita ha avuto tramite le sue azioni, e diluire le informazioni dirette per tutto il romanzo (mentre nei racconti, secondo me, non va detto proprio niente). Probabilmente vuoi tenere un tono aulico e ovattato, ma, come insegna Lovecraft, è bello se dura poco :P .
     
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  6. Zeruhur
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    temo che tu non abbia mai letto seriamente i fantasy...
     
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  7. CarDestroyer
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    Questo è vero :D .
     
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  8. Jake_the_Angel
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    risolti i problemi tecnici, posto anch'io il mio commento...

    dunque, nel complesso mi è piaciuto... sarà che da un po' di tempo a qs parte comcincio a vedermi seriamente nella figura paterna...
    ma mi ci vedevo a leggere 'sta storia... magari al momento 'solo' ai miei nipoti... :)

    e quando è 'finita' l'ultima parte, mi è dispaiciuto... quindi vedi che pòi fa' e posta il seguito, quando potrai!
    detto questo, un po' mi ricorda 'Capitani Coraggiosi', un po' 'Le mille e una Notte', credo che avrai tratto ispirazione da qualche fonte o roba simile, che so, Ben Hur, ad es. ...
    anch'io a volte ho avuto l'impressione che qualche descrizione in meno non avrebbe guastato... qs, per un lettore 'moderno', di oggi...
    imo, dipende dall'effetto che vuoi creare... se vuoi dare l'effetto di uno scritto di molto tempo fa, allora va bene, imo chiaro...
    cmq, attendo il seguito!
    ciao
    jake

    Edited by Jake_the_Angel - 15/4/2006, 01:36
     
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  9. Zeruhur
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    l'ispirazione più grande nei nomi e nelle situazioni è il Conan howardiano (per intenderci l'originale e non il cinematografico), non nego però che una fetta di contributo va a quella letteratura fantasiosa che come giustamente hai individuato ha come esponenti le Mille e una notte. Niente Kipling non mi piace e neanche Ben Hur.
    Per quanto riguarda le descrizioni e gli aggettivi: come avrete capito leggendo ormai un numero di mie opere non indifferente non amo le narrazioni asciutte e come le definite moderne. Lasciano troppo all'immaginazione, mentre secondo me un narratore deve condurre per mano dentro al racconto come e più si stesse guardando un film
     
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  10. CarDestroyer
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    CITAZIONE (Zeruhur @ 18/4/2006, 21:26)
    Per quanto riguarda le descrizioni e gli aggettivi: come avrete capito leggendo ormai un numero di mie opere non indifferente non amo le narrazioni asciutte e come le definite moderne. Lasciano troppo all'immaginazione, mentre secondo me un narratore deve condurre per mano dentro al racconto come e più si stesse guardando un film

    Non è la stessa cosa: non confondere le descrizioni particolareggiate con il modo di descrivere. Si può trascorrere la maggior parte del tempo a descrivere qualcosa piuttosto che a far agire, ma bisogna rendere parte attiva anche il lettore ;) .
     
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9 replies since 8/4/2006, 12:01   275 views
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